Il 26 dicembre di trenta anni fa, si chiudeva una pagina essenziale della storia del Novecento: dopo le laconiche dimissioni di Mikhail Gorbachev, pronunciate in diretta televisiva la sera del 25, il Soviet Supremo sancì ufficialmente la dissoluzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il primo Stato operaio mai costituito nella storia dell’umanità, il primo Paese riuscito a superare la società capitalista per tentare di dare vita ad un nuovo modello di civiltà, quello socialista, fondato sull’eguaglianza sociale e sull’emancipazione dell’uomo dallo sfruttamento.
Non si tratta qui di tracciare un bilancio di quell’esperienza storica, segnata da importanti limiti e contraddizioni che non approfondiremo in questa sede, né di soffermarci sul complesso processo che ha condotto alla sua fine: il dibattito sulla figura di Gorbachev, sulle sue responsabilità e sulle sue reali intenzioni, infatti, è ancora tutt’altro che chiuso. In occasione di questo anniversario, vogliamo invece soffermarci su quanto avvenuto in seguito, sulle conseguenze della dissoluzione dell’URSS sia sul piano interno che internazionale, così come sulla risposta data dai cittadini ex-sovietici a questi eventi.
L’epoca di Eltsin, tra privatizzazioni ed autoritarismo
Benché al referendum del marzo 1991 tre cittadini sovietici su quattro si fossero dichiarati contrari alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, il cammino intrapreso dagli eventi in seguito alle politiche gorbacheviane risultava ormai difficilmente modificabile. Le pulsioni indipendentiste, la rinuncia del PCUS al proprio ruolo di guida, lo scioglimento del Comecon e del patto di Varsavia, nonché il duopolio di potere creatosi fra il governo dell’Unione e quello della Repubblica russa, non potevano avere altri sbocchi oltre a quello effettivamente delineatosi nel mese di dicembre. La dichiarazione di Gorbachev del 25, così come la decisione del Soviet supremo del 26 dicembre, erano peraltro solo delle formalità: la dissoluzione dell’URSS in quanto entità statale era infatti già stata decretata nella notte fra il 7 e l’8 dicembre, in una dacia nella foresta bielorussa, quando i tre presidenti delle repubbliche di Russia, Bielorussia ed Ucraina (Boris Eltsin, Stanislaw Shushkievich e Leonid Kravchuk) decisero – incuranti del verdetto popolare di pochi mesi prima – di porre fine all’esistenza dello Stato sorto con la Rivoluzione d’ottobre del 1917, sostituendolo con un’effimera e scialba Comunità di Stati Indipendenti (CSI). Quell’incontro passerà alla storia come “Accordo di Belavezha”, ma i russi lo chiamano sarcasticamente “Complotto di Belavezha”, sia per la segretezza con cui si svolse che per l’illegittimità delle sue premesse.
Questo sprezzo verso la volontà popolare non fu certo un caso isolato nel processo di smantellamento dello Stato sovietico. A differenza di quanto raccontato dalla propaganda occidentale di quel tempo (e in parte ancora da quella odierna), la fine dell’URSS non corrispose in nessun modo al trionfo della democrazia o dello stato di diritto. Nel novembre del ’91, Eltsin impose ad esempio un divieto d’attività al Partito Comunista in tutto il territorio della Repubblica federativa russa, sottraendogli tutti i beni di cui era proprietario (sedi, uffici, fondi, ecc.). Solo nel 1993, dopo numerose vertenze giudiziarie, poté essere rifondato nel volto del nuovo Partito Comunista della Federazione russa (PCFR), a cui si unirono circa mezzo milione di vecchi e nuovi militanti. Ma Eltsin – consigliato da numerosi consulenti occidentali appositamente inviati a Mosca – non si limitò ad impedire l’attività politica ai comunisti (contravvenendo quella stessa libertà di espressione con cui aveva costruito la sua ascesa al potere), ma rimise in discussione lo stesso assetto costituzionale del paese.
Di fronte alle importanti resistenze sorte in opposizione alla sua agenda politica, tesa a svendere l’intero patrimonio statale ai più avidi speculatori ed a smantellare tutte le garanzie sociali del sistema sovietico, Eltsin non si fece scrupoli a violare praticamente ogni principio alla base delle democrazie liberali in salsa occidentale, come la libertà di manifestazione, lo stato di diritto o la divisione dei poteri. Quando, nell’autunno del 1993, il Congresso dei deputati del popolo (ossia il parlamento) si rifiutò di sostenere ulteriormente il suo programma di riforme neoliberali [liberiste?], il presidente russo non si fece scrupoli a sciogliere l’organo legislativo, anche se la Costituzione non gli garantiva tale potere. In risposta alle proteste del parlamento, sostenuto da imponenti manifestazioni popolari contrarie alle privatizzazioni ed alle liberalizzazioni, Eltsin ordinò all’esercito di prendere letteralmente a cannonate il palazzo parlamentare, provocando svariate decine di morti. Senza più alcuna opposizione istituzionale, il presidente fece approvare una riforma costituzionale che limitava pesantemente l’autorità parlamentare ed accentrava i poteri nelle sue mani, garantendosi piena libertà d’azione.
Negli anni seguenti poté così procedere indisturbato alla svendita delle grandi aziende statali e delle risorse naturali del Paese, alla liquidazione dello Stato sociale sovietico e alla liberalizzazione più sfrenata dell’economia russa. Le riforme economiche neoliberali suggerite dai consulenti occidentali fecero esplodere le disuguaglianze sociali e peggiorarono sensibilmente le condizioni di vita della popolazione: oltre all’ascesa degli oligarchi, la Russia degli anni ’90 fu segnata dalla povertà, dalla disoccupazione, dalla precarietà e dall’insicurezza. Il crimine organizzato dilagò ovunque, i diritti sociali vennero azzerati e l’aspettativa di vita si ridusse di 5 anni tra il 1991 e il 1994. I numerosi indicatori economici, educativi e sanitari facilmente reperibili in rete parlano chiaro: la Russia eltsiniana, lungi dall’essere il paradiso della libertà e della democrazia, come a lungo decantato per screditare l’URSS, era invece un vero e proprio inferno sulla terra.
Altro che “pace mondiale”: l’imperialismo libero di agire senza freni
Un altro leitmotiv della propaganda occidentale al tempo della dissoluzione dell’URSS era quello della pacificazione del mondo, del sopraggiungere di un’epoca di pace ed armonia. Anche in questo caso, nulla di più lontano dalla realtà: gli anni ’90, così come gli anni Duemila, sono infatti stati segnati da un’esplosione di tensioni e conflitti in ogni angolo del mondo. Tensioni che l’equilibrio tra i due blocchi della guerra fredda aveva tenuto sopite, pur entro certi limiti e con grosse difficoltà.
Nello stesso territorio dell’ex-URSS, le tensioni etniche e religiose condussero a sanguinosi conflitti armati, alcuni durati anni e costati migliaia di vittime. Uno fra tutti la guerra in Cecenia, dove prosperarono anche forme di estremismo religioso di cui permangono tracce ancora oggi. Venuto meno il ruolo stabilizzatore dell’esercito sovietico, in alcune regioni di frontiera del blocco socialista riaffiorarono conflitti latenti, come in Afghanistan e in Jugoslavia, dove la NATO poté agire impunemente come mai prima di allora.
Nel ruolo di “gendarme del mondo”, gli USA potevano ormai imporre indisturbati i propri interessi alla comunità internazionale, rimasta priva di un contrappeso militare ed economico. Ritiratasi nei suoi confini, alle prese con importanti conflitti interni, la Russia post-sovietica non poteva più (se anche lo avesse voluto) giocare questo ruolo. Ciò ha peraltro consentito al campo imperialista di estendersi ben oltre la vecchia “cortina di ferro”, integrando nella NATO numerosi Paesi dell’ex Patto di Varsavia e giungendo così a ridosso delle frontiere russe. L’attuale situazione di tensione al confine ucraino va letta proprio in questa prospettiva, come abbiamo rilevato ancora di recente in questo articolo.
La Russia oggi, tra nostalgia dell’URSS e nuovo prestigio internazionale
La reazione popolare alle politiche eltsiniane non fu certo assente, come abbiamo già avuto modo di vedere: oltre alle imponenti manifestazioni di piazza organizzate durante i primi anni del suo governo, Eltsin dovette fare fronte alla seria concorrenza del Partito Comunista, il cui candidato alla presidenza Gennady Zyuganov raccolse ben il 40% dei suffragi alle elezioni del 1996: uno scrutinio su cui aleggia peraltro ancora oggi il grave dubbio della falsificazione dei risultati in favore di Eltsin. Ancora oggi, il PCFR rappresenta la principale forza d’opposizione nel Paese, come hanno dimostrato anche i suoi più recenti risultati elettorali (vedi qui). Come regolarmente dimostrano svariate indagini demoscopiche, la maggioranza del popolo russo rimpiange d’altronde l’URSS, ancor oggi simbolo di stabilità, di diritti e di prestigio.
Benché forte di un ampio sostegno popolare, il Partito Comunista della Federazione russa non è però più riuscito ad imporsi come forza di governo, complice evidentemente anche il sostegno trasversale di cui gode l’attuale presidente Vladimir Putin. Nominato quale successore dallo stesso Eltsin, Putin è stato capace di operare una sintesi tra la volontà degli oligarchi a lui vicini e quella delle classi popolari, garantendo un certo miglioramento delle loro condizioni di vita, una maggiore sicurezza ed anche un certo prestigio internazionale, cosa che ha sicuramente rincuorato i patrioti che non potevano soffrire l’atteggiamento supino dell’ex-presidente nei confronti dei paesi occidentali.
Il quadro capitalistico della Russia attuale, le importanti limitazioni alle libertà politiche che di recente hanno colpito anche i comunisti, le profonde disuguaglianze che attraversano la società russa, non possono farci dimenticare il ruolo progressivo che questo Paese è tornato ad assumere sul piano internazionale negli ultimi anni. Coltivando le relazioni diplomatiche e commerciali con i BRICS, intervenendo in sostegno alla pace in scenari molto delicati come in Siria e in Ucraina, difendendo laddove possibile i popoli minacciati dall’imperialismo, la Russia di Putin è riuscita a ricostruire almeno parte del ruolo di contrappeso svolto dall’URSS fino alla sua dissoluzione nel 1991.
Benché il futuro resti incerto, offuscato dal minaccioso espansionismo occidentale e dall’indeterminatezza degli scenari post-Putin, quel che è certo è che gli ultimi due decenni hanno segnato una decisa svolta rispetto ai tragici anni di Eltsin. Se la dissoluzione dell’URSS ha comportato enormi sacrifici ai suoi cittadini, non è certo con i rimpianti che si potrà costruire un futuro di pace e prosperità: occorre invece guardare al presente ed al futuro per identificare le opportunità di progresso, nella speranza, come scrivevamo all’inizio di quest’anno (vedi qui), che questa via possa essere tracciata dalle forze comuniste, le uniche capaci di garantirne il successo e la stabilità. Oggi come un tempo.