Quale lezione apprendere?

Anche l’Ungheria si ritaglia un suo spazio al Festival del Film di Locarno, il quale ha proiettato la pellicola Fekete pont (“Lezione appresa”) del regista Bálint Szimler. Il film vuole essere una trasposizione realistica dei problemi strutturali del sistema scolastico ungherese, riflettendo al contempo “in scala” la società magiara nel suo insieme. Nella breve descrizione data dal metteur en scène si legge infatti che “il sistema scolastico ungherese oggi è in crisi: lo scarso numero di insegnanti e le nuove leggi che li censurano si ripercuotono su ciò che possiamo imparare a scuola. Questo mi ha spinto ad analizzare l’autocensura in Fekete pont”. Vediamo un po’ più da vicino di che si tratta e quali sono le criticità che vi abbiamo trovato.

La scuola là, tra il Danubio e il Tibisco

La storia ha una duplice focalizzazione: da un lato seguiamo i problemi d’integrazione di Palko, un bambino che si è di recente trasferito in Ungheria da Berlino per via delle esigenze lavorative della madre; dall’altro osserviamo la giovanissima insegnante Juci, appena assunta nella medesima scuola. Entrambi tenteranno, vanamente e tragicamente, ad integrarsi in un tessuto educativo incancrenito, oppressivo e ottuso, incapace di rinnovarsi ed incorporare un qualunque tipo d’istanza che venga dal basso, puntualmente repressa, e ammantato da una serietà pedissequa e insensata. Questa natura autoritaria ci è palesata sin dal principio in modo inequivocabile in una scena in cui, durante la cerimonia di apertura per il nuovo anno scolastico, una docente e il coro di bambini intonano quella che parrebbe essere una canzone popolare ungherese (ma non, sembrerebbe, l’inno nazionale; chi scrive si duole di non averla potuta identificare), in cui si parla del patrio destino dei magiari, i quali non potranno andarsene dal natio suolo, dove vi moriranno. Un’inflessibilità amministrativa è praticata per i ritardi a lezione (anche se di un singolo minuto, ci tengono a mostrarci), le corse per i corridoi o l’aver portato una maglietta non del colore standard alla lezione di ginnastica, fino a sfociare in atti di censura e licenziamenti politici: un libro sul poeta Sándor Petöfi (che in nota ricordiamo essere il poeta ungherese romantico per eccellenza, nonché eroe nazionale e grande patriota) manca di alcune pagine che, intuiremo, sono state strappate per censurare una poesia ispirata allo spirito ribelle della gioventù e un elogio all’iniziativa individuale; qualche scena dopo, un docente è licenziato in tronco per aver postato non si sa bene quale commento sui social e, forse, (ma la finezza è quella di un carro armato, quindi certamente è anche per quello) per il suo legame con una ONG non meglio definita. Non andremo nei dettagli sulle vicissitudini dei due personaggi, di cui alla fine possiamo solo in parte supporre l’epilogo. Palko, ostracizzato e chiuso nel suo mutismo dopo un evento traumatico, tenta un ultimo gesto di ribellione, stroncato (letteralmente); Juci, constatata l’impossibilità d’incidere sul sistema per poterlo riformare, sembra licenziarsi.

Salve, compagno Kádár!

Dunque qual è il problema di questo film? Anzitutto, esiste forse un problema in questo film, la cui trama è piuttosto interessante e scorrevole, salvo forse verso la fine, dove si trascina un po’? La risposta è sì. Partiamo dal presupposto che il film è diretto da un regista che non dubitiamo abbia girato la sua pellicola in buona fede, immettendovi dei problemi strutturali osservati e ritenuti ingiusti, che magari lo hanno pure segnato direttamente (la sua infanzia è newyorkese, ma ha frequentato l’università a Budapest). Quel che mi ha comunicato il film dopo qualche decina di minuti di visione è stata una forte impressione parodica, quasi grottesca. Mi è sembrato che potesse tranquillamente essere ambientato negli anni ’60, ’70 o ’80. È sufficiente aggiungere al centro del tricolore una stella rossa bordata d’oro e levare il quadro con la corona di Santo Stefano per mettervene uno con la foto di János Kádár e il gioco è fatto: ecco a voi un film occidentale o occidentalizzato medio che critica, più o meno approssimativamente (e con diverse gradazioni di qualità, che partono dal patetico e arrivano al demenziale), il “totalitarismo” socialista. Di socialismo, così come di totalitarismo, in Ungheria non v’è traccia alcuna, ma lo spirito del film è esattamente quello, come se fosse stato scritto a quattro mani da Hanna Arendt e Robert Conquest. Le istanze critiche formulate, che pure sono vere e legittime, sono pressate in una macchina da presa che le riversa su schermo in un modo talmente esagerato da perdere vigore e trasformare la pellicola in un semplice manifesto. E di manifesti contro l’Ungheria di oggi non ne mancano sui giornali e nei media.

In Fekete Pont il calvario delle lezioni di ginnastica allude all’ossessione delle “dittature” per l’educazione fisica.

Qualche esempio: gl’insegnanti non solo sono malpagati e in numero insufficiente per garantire il buon funzionamento delle lezioni, costretti a turni eccessivi e a coprire lezioni sulle cui materie non sono preparati, ma sono tutti, dal primo all’ultimo (ovviamente eccepita Juci, coprotagonista, e giusto due persone che vedremo più avanti), seppur con diverse gradazioni di gravità, dei rifiuti umani. Autoritari, incapaci di mostrare un qualunque tipo di empatia verso i propri alunni (c’è una differenza tra professionalità e disprezzo, ma qui le due cose sembrano assimilate l’una all’altra), costantemente seri (come nella visione occidentale tipica del grigio membro del partito comunista storico), per la maggior parte fondamentalisti conservatori, nazionalisti (nel modo più becero, non patriottico) e, alcuni, addirittura violenti coi bambini (il docente di ginnastica sarà la causa del trauma di Palko), dunque anche dei completi deficienti (nel senso letterale del termine), incapaci di fare il proprio lavoro e pusillanimi (il collega violento è coperto da tutti gli altri tranne Juci). E ancora: il cibo offerto in mensa è pessimo, ci raccontano schifati dei bambini; il docente di ginnastica è fissato con le prestazioni sportive (chissà mai con quale altro paese brutto e cattivo voleva fare il collegamento il regista) e sfianca i ragazzini con esercizi infiniti o troppo duri; la burocrazia, incontrata nel film come processo amministrativo per poter riparare una finestra rotta, è un immenso, incomputabile leviatano, che per leggi di natura non può dare risposta a coloro che devono cimentarvisi e pare esistere unicamente per prendere in giro i malcapitati attraverso i suoi grigi e depressi impiegati (altro collegamento all’idea storica di mondo socialista). Per finire, verso la fine del film c’è una serata di teatro, durante la quale i bambini fanno uno spettacolo con temi piuttosto maturi, sulla storia antica dell’Ungheria. L’immagine che ne esce è quella di un delirio nazionalista mascherato, inculcato a dei bambini che hanno ben altri interessi e idee.

Ungari, vecchi mostri scacciati dalla civiltà tedesca

Insomma, per denunciare tutto ciò che si rifiuta dell’Ungheria, perché non prendere due piccioni con una fava ed inserirci anche l’esperienza comunista? Certo, questa rimane la mia impressione (quella di un cinefilo, uno storico in erba e un comunista), ma proprio la platealità ed enfasi degli strali del regista finiscono per suggerirmi questa duplice natura, questo prodigioso cocktail tragicomico. D’altro canto, mi si potrebbe dire che, da buon “rossobruno” o “fascista rosso” (come amano chiamarci i liberali, che hanno sempre bisogno di categorie fantasistiche per coprire la loro reale associazione coi fascisti veri), posso frignare quanto mi pare sull’Ungheria socialista e quella attuale (che i comunisti li odia), ma se la realtà delle cose è quella che il regista cerca di mettere su pellicola, è sciocco da parte mia criticarne una sua qual certa assurdità, perché la natura della repressione politica può assolutamente essere grottesca e imbecille; e dunque, in tal caso, non solo il film riesce come provocazione politica, ma addirittura restituisce fedelmente l’aura di commedia nera che ammanta la società ungherese: ecco un capolavoro da festival! La realtà però penso sia un po’ più complicata di così.

Dissento non per forza sul tipo di critiche mosse al paese magiaro, sul quale posso esprimermi fino ad un certo punto, visto che non sono un esperto (non su questa congiuntura della sua contemporaneità), ma su alcune di esse e la presunta originalità delle stesse. In primo luogo, dubitiamo che gli ungheresi adulti siano tutti dei rifiuti umani, riflessi simmetrici e perfetti del conservatorismo della sua leadership. Una leadership, peraltro, che è sostenuta anche da elettori con idee diametralmente opposte in campo economico e civile, anche per motivi estremamente pratici e tattici, come il limitare l’influenza dell’UE, della NATO (più di un anno fa si leggeva sui giornali della “purga anti-NATO”, cioè un pensionamento anticipato tra gli alti papaveri dell’esercito ungherese), la coltivazione delle relazioni commerciali fuori da questi due sistemi (con la Russia e la Cina per esempio; il compagno Xi Jinping ha fatto tappa in Ungheria qualche mese fa nel suo viaggio europeo) e, attualissima e fondamentale, la ricerca di una de-escalation e pace in Ucraina (gl’incontri di Orbán con Zelensky, Putin e Xi sono stati demonizzati e boicottati in ogni modo dall’UE). Dunque, cari lettori, no: se l’Ungheria presenta, per usare un eufemismo, delle controversie sulla sua politica interna, non è di certo perché i magiari tutti sono dei mostri. È un peccato invece che il film non provi ad interrogarsi sul perché quel tipo di cittadino ungherese sia diventato così: forse le risposte complicate non piacciono. In secondo luogo, le uniche eccezioni alla regola del mostro presentano delle caratteristiche particolari. Queste sono, ovviamente, Juci, che è ancora giovane, e altre due persone, che sono un tipo di ungherese sui generis. Uno è il docente di matematica, che è gentile e disponibile, contrario alle misure punitive più sciocche e inutili che ad un certo punto proporrà il docente di ginnastica. Guarda caso è anche la vittima del licenziamento politico, associato alla sua collaborazione con una ONG. Per completezza inseriamo in questa disamina anche l’unica docente con cui Juci lega un po’, ma che le volterà le spalle una volta che il resto del corpo docenti deciderà di ostracizzarla. In un qualche modo, pare che gli unici ungheresi buoni siano coloro che vengono da fuori l’Ungheria (come Palko e la sua famiglia, mai mostrata sullo schermo ma implicitamente migliore delle famiglie autoctone, tutte infami tranne una rappresentata da una madre nubile molto povera), o che siano associati ad una ONG (che potrebbe essere magiara e non per forza occidentale, siamo d’accordo, ma sembra veramente fatto apposta: mancava solo il logo di sponsorizzazione del NED) o ancora che abbiano un tipo di attitudine e mentalità occidentalizzata (faccio riferimento alla poesia di Petöfi che Juci cerca ed insegna alla sua classe, in una scena molto dolce). Ecco, il fatto che dentro sia l’Inferno e fuori il Paradiso, che gli ungheresi tornino ad essere i “selvaggi” ungari da cui Ottone I e i principi tedeschi del civilissimo Sacro Romano Impero avevano liberato parte della Germania nell’Alto Medioevo, questo credo sia molto offensivo ed insultante, perché semplicemente non è vero.

Bálint Szimler, il regista di Fekete pont.

Fratelli d’Ungheria, la terra magiara si desta

Per quanto riguarda il secondo punto su cui vorrei esprimere delle critiche, l’Ungheria di oggi viene presentata con dei vestiti di scena propri, che a tratti sembrano anche quelli di eredità sovietica; ma in realtà, guardando bene le cose nel loro insieme, ci si rende conto che questo spettacolo potrebbe essere portato avanti con un qualsiasi altro costume, anche molto più occidentale. Se tutto rimanesse uguale, ma fosse ambientato in Italia, recitato da attori italiani, per parlare della scuola italiana, il film gli vestirebbe a pennello. Non bisognerebbe spostare quasi una virgola. Infrastrutture fatiscenti, burocrazia letale, fondi per l’istruzione inesistenti, boutades nazionaliste, manualistica datata, revisionismo storico e censura. “Ma non così! Non il licenziamento politico!”. No? In Svizzera all’università di Berna hanno licenziato in tronco docenti e chiuso centri di ricerca sul Medio Oriente per essersi posizionati in sostegno alla Palestina. La polizia e le università hanno trattato come potenziali terroristi tutti gli studenti che protestavano per far finire un massacro, facendoli passare per dei semplici facinorosi assetati di sangue. Non è repressione, forse, non è censura? Per chi ha la memoria corta, forse vale la pena ricordare anche l’isterismo russofobo che ha accompagnato i primi mesi del 2022, quando, sotto lo slogan “non esiste cultura russa senza carri armati” (strillo di psicolabili esagitati, che nulla sanno di cultura in generale, figuriamoci quella russa, fratelli putativi della gioventù hitleriana che una volta bruciava ridendo i libri “unti di giudaismo”), si pretendevano sul posto di lavoro professioni di fede contro lo stato russo da parte di cittadini immigrati (roba mai vista contro gli anglosassoni o i francesi); quando si cancellavano spettacoli teatrali, letture pubbliche o addirittura interi corsi sulla letteratura, la musica, la storia e tutto quanto fosse legato in un qualche modo al mondo russo, inclusa la soppressione dai menu di quel tipo di gastronomia; quando si misero all’indice titani della storia letteraria mondiale come Pushkin, Dostojevskij e Tolstoj e s’idolatravano come eroi nazionali ucraini autori come Gogol’ (i cretini forse non sapevano che l’autore probabilmente non avrebbe condiviso questa etichetta), levando ogni tipo di contesto storico e culturale; quando applicando scriteriatamente le sanzioni delle potenze occidentali abbiamo tagliato fuori da ogni possibilità di sostentamento migliaia di studenti e turisti russi, incapacitati di prelevare denaro dai loro conti, ma che con le ostilità belliche non c’entravano assolutamente nulla. Questa non è repressione e censura? No, è vero, non lo è: è peggio. È una mobilitazione per una guerra totale, materiale e ideologica, di tutta la società: ecco, questo è il totalitarismo; senza parate, senza saluti romani (non da noi almeno), senza camicie nere e fez, ma pur sempre totalitarismo nella stessa definizione data dai liberali. Noi occidentali siamo i demoni che accusano istericamente gli altri nei nostri media e nella nostra arte di massa. Al liberale pronto che si scalda dicendo “sì, ma poi le lezioni e gli spettacoli sono ripresi; è stato un caso particolare, per via dell’invasione russa”, rispondiamo che ci sono altri migliaia di esempi su come questo film parli di Ungheria esattamente quanto può parlare di noi. Oltre agli esempi già citati sulla Palestina, si possono citare i programmi scolastici francesi e britannici (o di qualsiasi altro paese coloniale, anche se particolarmente questi due) sull’argomento del colonialismo (riassumibili in breve con “sì, gli abbiamo preso qualche risorsa, ma gli abbiamo fatto le strade”) e il giuramento sulla bandiera (il famoso pledge of allegiance) sin dalla tenera età nelle scuole americane. Quindi, cari lettori, quanto parla di Ungheria e quanto parla di noi, questo film?

Lezione appresa!

Mi si potrebbe dire, giustamente, che la mia domanda è superflua. Chissenefrega se esistono delle somiglianze tra “noi” e “loro”: il regista ungherese ha voluto fare un film con ungheresi per denunciare una certa situazione sull’Ungheria, punto. Signori, io su questo alzo le mani: è vero, ed è legittimo. Qui propongo una domanda finale però: perché l’unico film ungherese e sull’Ungheria selezionato per il festival è stata una pellicola che lancia anatema contro quel paese? Non si tratta di un caso, visto che vale per ogni singolo paese non allineato o contrapposto agl’interessi euroatlantici presentato al festival: Iran, Cina, Ungheria (Russia non pervenuta! Però ricordatevi che il festival è “un luogo d’incontro” e può “promuovere la pace”). Tutti i film di questi paesi e su questi paesi hanno in comune una cosa: ne danno un’immagine diabolica. Ergo: queste pellicole partecipano al festival in funzione della loro critica, del loro rifiuto e del loro disprezzo per il paese che ritraggono (spesso, tra l’altro, da parte di registi émigrés, che il loro paese non lo vivono più o non lo hanno mai visto). Non è così per i film di altri paesi come l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti eccetera. Perché? Sarà solo il caso di questa edizione? No di nuovo. È così da parecchio ormai (Sinistra.ch ha proposto negli anni diversi approfondimenti delle varie edizioni del festival).

A onor del vero le maestà del comitato artistico hanno anche accettato un corto cubano di 15 minuti (I love Papuchi), un film venezuelano (Los capitulos perdidos) e un corto palestinese (Upshot, recensito da Samuel Iembo). Nei primi due non è presente un’autocritica furiosa del proprio paese d’origine: nel film venezuelano è molto velata e liberamente interpretabile, in quello cubano non sussiste. Upshot è invece un inno alla resistenza. Queste piccole pellicole tuttavia non sovrastano il suono dei tamburi di guerra del festival, che si assorda e si rintrona da solo ripetendo sempre le stesse invettive ed idées reçues sulle erbacce e la giungla del mondo di fuori, quello che rifiuta lo splendente giardino europeo e statunitense.

Insomma, Fekete pont è una pellicola interessante, un po’ lunga, piuttosto grottesca e parodica di una realtà ungherese complicata e problematica. Fekete pont dà una lezione su cosa sia in parte l’Ungheria, insegnando cosa la scuola non dovrebbe essere, a noi che la scuola la stiamo trasformando proprio in quel teatrino mostratoci sul grande schermo. La lezione qual è? Che l’Ungheria è uno stato nemico della libertà, della democrazia e del pluralismo, oppure che quel tipo di scuola è sbagliato e basta, in generale, non solo quando sono gli “altri” a farlo? Un po’ come la domanda sulla Shoa: è sbagliata perché è stato un inenarrabile, mostruoso, industriale genocidio o perché è stata commessa contro il popolo ebraico? Considerando le intenzioni “educative” del festival, noi siamo piuttosto sicuri di aver capito quale delle due lezioni sia stata colta in fase di selezione, per essere promossa. E non è quella buona.

Alessandro Bellanca

Alessandro Bellanca, classe 1999, è iscritto al Partito comunista. Studia Storia e Lettere all’università di Friburgo.