In una delle batterie di cortometraggi presenti al Locarno Film Festival è il corto Upshot (traducibile come “effetto”, “risultato” o “esito”) del 2024 della palestinese Maha Haj ad aver dato un pugno nello stomaco agli spettatori. Co-prodotto fra Italia, Francia e Palestina, il corto narra di quella che sembra una normalissima famiglia araba. Il dottor Suleiman e sua moglie Lubna vivono in campagna, lontani dalla società, passando le giornate a raccogliere i frutti della loro terra, a dar da mangiare alle galline e prendersi cura della casa. Sembra tutto pacifico, con qualche discussione normale da vita di coppia, e tanto parlare dei loro cinque amati figli, quando passeranno a visitarli, chi ha sentito al telefono chi, chi ha detto cosa, chi ha deciso dove andrà e che strade intraprenderà nell’immediato futuro. Si parla della moglie di Khaled, che è andata a stare dai genitori, o ancora della figlia che secondo il padre dovrebbe viaggiare il mondo e studiare, mentre secondo la madre, avendo già 34 anni, dovrebbe sposarsi.
Come detto, tutto normale. Questo almeno finché non spunta un terzo personaggio, un giornalista, che dice di aver percorso una lunghissima strada per arrivare da loro e potersi far raccontare la storia di ciò che è successo. Che è successo? La notizia colpisce come un pugno nello stomaco. Dopo che i due coniugi si sono rifiutati di parlargli, lui rimane fuori da casa loro, sotto la pioggia, sperando che cambino idea. E alla fine la cambiano, e si siedono al tavolo, prendendo il tè. Ed è in quel momento che il giornalista chiede loro di raccontare cos’è successo. “Sono passati tanti anni”, dice, “e non mi interessa sapere dell’occupazione israeliana a Gaza… ma la vostra storia è la più tragica di tutte, e volevo raccontarla”. Nel silenzio attonito, il pubblico assiste al crollo di quello che aveva visto fino a quel punto, della normale famiglia con problemi normali. “Perdere 5 figli, tutti insieme”. I figli su cui la coppia discuteva e si scambiava informazioni, erano ormai deceduti sotto i raid israeliani da tempo. Una rivelazione agghiacciante, che fa vivere agli spettatori una dolora empatia con i genitori, che zitti davanti al giornalista a malapena riescono a trattenere le lacrime. Se le lacrime avessero un suono, in quel momento sarebbero state assordanti in sala.
Il giornalista prosegue, cercando di farsi dare delle informazioni, riuscendo ad ottenere solo l’età dei figli alla loro morte. Uno dei cinque aveva appena due anni di vita. Dopo questa conversazione, lasciando i due genitori affranti, si congeda, ma la madre lo trattiene. “Habibi”, dice, “vorresti restare con noi a cena?”. Lui annuisce, e si ritrovano a cena insieme. Lentamente tutto torna alla “normalità”, e Suleiman e Lubna cominciano a parlare di Khaled. Dice al ragazzo che Khaled li saluta, lui non capisce inizialmente, ma poi comprende la necessità, struggente, dei due genitori di dover mantenere in vita i loro figli che sono brutalmente scomparsi anni prima.
Se non fosse così attuale, se non fosse che questa storia più parlare di centinaia di migliaia di palestinesi, forse non sarebbe un colpo al cuore così forte. Forse non avrebbe generato quel boato dal pubblico, che ha applaudito ben tre volte il cortometraggio, l’ultima volta dopo che qualcuno ha gridato dal pubblico “Free Palestine!”. Degli applausi lunghissimi e spontanei, che segnano la forte vicinanza della gente alla causa palestinese, assediata da anni di apartheid e dal genocidio di Israele.
In passato il Locarno Festival ha stretto accordi con la Cineteca di Stato israeliana, rendendosi complice della macchina di propaganda sionista: speriamo che questo segnale dal basso, che questo segnale di necessità di sostegno alla Palestina e di distanza da Israele, giunga forte alla direzione del festival.