I vincoli della nuova Guerra Fredda, le imposizioni delle produzioni, la modestia del Pardo d’Oro

Spettatori ancora in crescita, oltre centocinquantamila, dunque un trionfo, suonino le trombe e le grancasse, si zittiscano i pifferai anche solo moderatamente critici. La presidentessa Maja Hoffmann, guida il coro del successo, tuttavia in un lunga intervista al Corriere del Ticino del 19 agosto 2024 subito ammonisce: “per restare ai vertici la selezione ufficiale merita film di prima categoria”. Sorge allora subito spontanea una domanda, che cosa significa “di prima categoria” per la nuova presidentessa? È un secondo richiamo, dopo quello di inizio Festival, al fatto che le produzioni hollywoodiane disdegnano da sempre le rive rossocrociate del lago Maggiore?

Credo che il problema sia un altro: intanto Locarno ha primeggiato per decenni perché ha selezionato e in molti casi premiato pellicole di straordinaria qualità, capaci di linguaggi artistici intelligenti, toccanti e innovativi, film provenienti anche da nazioni, dal Medioriente all’Asia, dall’Europa Orientale all’Africa, politicamente molto lontane dal fronte occidentale. Qui mi pare si evidenzi il primo grande problema dell’attuale Festival, in realtà di tutti i Festival occidentali, ossia il ritorno prepotente della Guerra Fredda e l’impossibilità o la mancanza di volontà di chiamarsi fuori da vincoli che di giorno in giorno si fanno sempre più stringenti.

Si è tornati alle logiche degli anni ‘50, in cui i film del blocco sovietico erano sempre stati pochi e alacremente criticati, sarà invece il periodo 1960 – 1990 quello del coraggio delle direzioni artistiche capaci di rompere i vincoli di una opprimente cappa politica. Oggi invece il salto è triplo e tutto all’indietro: dal campo multipolare di film non ne arrivano, o quelli presuntamente tali devono essere di autori che possibilmente vivano a Parigi, Londra e New York e lottino “artisticamente” contro i loro governi.

Un tempo luogo di incontro e confronto tra nazioni e culture, e persino tra blocchi nemici, oggi il Festival di Locarno non prova pudore nel dimostrare la propria faziosità politica.

Non sarà un caso che le pellicole, pure se turche o ungheresi, come in questa 77° edizione, debbano più o meno velatamente criticare i loro “cattivissimi” governi, rei di dialogare con russi e cinesi alla ricerca di una pace che la NATO vuol far scomparire dai nostri orizzonti futuri, purtroppo quelli concreti e reali, non solo cinematografici.

I Festival del Cinema – e Locarno tra essi – vivevano poi della ricchezza di linguaggi cinematografici. Un regista maliano o burkinabé, un irakeno o un vietnamita, potrei citare decine di titoli degli anni ‘70 e ‘80, avevano una cifra stilistica frutto della loro storia e della loro cultura, vedere un loro film significava imparare moltissimo del loro mondo, della loro realtà, della quotidianità della vita delle donne e degli uomini della loro nazione.

Oggi invece tutti i festival occidentali, purtroppo, vivono sotto una feroce e soffocante dittatura delle case di produzione. I soli film extra-occidentali che possano arrivare sugli schermi dei festival sono quelli che prioritariamente abbiano avuto una scrittura in fase di soggetto e sceneggiatura pensata a Londra, Parigi, New York. I registi, anche quando sono di Africa, Asia e America Latina, possono girare, se vogliono andare in uno di questi Festival, soltanto seguendo i canoni e le regole attese non solo dalla produzione, ma anche dalla distribuzione occidentale. Ne risulta una naturale omologazione di metodi e contenuti e soprattutto di linguaggi, una narrativa cinematografica svilente ogni ricerca personale e artistica. Peggio ancora quando tali produttori impongono pure, senza vergognarsene, esiti abbastanza clamorosi dei film stessi, con il trionfo di quelle tematiche relazionali, dall’iperfemminismo all’antipatriarcato, al gender, che rendano politicamente corretto il prodotto per il pubblico occidentale, sebbene magari totalmente disconnesse dal contesto in cui sono immerse. Insomma si gira in Africa, ma la storia potrebbe essere accaduta con più facilità in Francia ed europei sono pure i sentimenti e i valori che esprime, che rimangono totalmente estranei o iperminoritari nelle nazioni in cui sono girate queste pellicole. In questa edizione si è sentito ad esempio parlare di gender rispetto a una nazione islamica africana, forse non proprio il primo dei temi all’ordine del giorno in quella società. Tale dittatura delle produzioni e delle distribuzioni espunge poi qualsiasi pellicola orientata verso i temi della contraddizione capitale – lavoro, o altri temi sociali estranei a quelli dominanti.

Il modesto Akiplėša della regista lituana Saulė Bliuvaitė vince il Pardo d’Oro.

La modestia del Pardo d’Oro ne è un’ulteriore conferma: la sola autentica qualità del lungometraggio “Akiplėša”, ovvero “Tossico”, della giovane regista lituana Saulė Bliuvaitė, è la fotografia, giocata su colori intensi, restituendo in modo contrastivo i bigi grigiori di cieli e di luoghi, in un’altra stridente contraddizione, quella tra un contesto completamente sovietico dalle case alla campagna, in mezzo a giovani e adulti che nella più recente tradizione delle nazioni baltiche sono del tutto orientati culturalmente oltreoceano. La regista, più con cinica distanza che con partecipata attenzione, mostra il percorso autodistruttivo di alcune ragazze totalmente disconnesse dagli adulti, i quali non offrono loro alcuno stimolo e alcun supporto. Desiderose di emanciparsi dalla pochezza che le circonda, non trovano altra strada che imporre a loro stesse e ai loro corpi di farsi oggetto di una presunta e non del tutto convincente procacciatrice di modelle o forse giovanissime accompagnatrici, per nulla aiutate dagli squinternati ragazzi poco più che coetanei che frequentano tra un eccesso di bottiglie e di sigarette in attesa delle albe estive, prima che le piogge settembrine annuncino la fine della breve ed effimera stagione assolata, per restituire le protagoniste e tutto ciò che si muove avvilendole attorno a loro alla più effimera marginalità.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.