In due articoli del novembre 2014 (La guerra mondiale del petrolio) e del marzo 2015 (I tragici sviluppi mediorientali della guerra mondiale del petrolio) avevo ricostruito i fatti drammatici di quegli anni e di cui forse ci siamo scordati, infatti con una violenza inaudita Obama e i suoi amici democratici hanno incendiato il mondo: il golpe in Ucraina e la guerra del Donbass, la copertura degli attentati anti-sciiti dal Pakistan al Libano, il sostegno ai gruppi, spesso integralisti, contro il governo siriano e la nascita dell’ISIS, il via libera per i sauditi all’aggressione contro gli yemeniti sciiti, il disastro libico subappaltato ai francesi.
La premessa a questi scontri armati è stata l’innesco di quella che avevo sei anni fa definito la guerra mondiale del petrolio. Nel 2014 Obama e i democratici hanno infatti deciso di tenere al ribasso il prezzo del petrolio. Nel decennio precedente il barile aveva veleggiato tra gli 80 e i 120 dollari, cifre altissime, che hanno favorito i progetti sociali di Iran e Venezuela e la ripresa della Russia di Putin dopo il tracollo eltsiniano (1992 – 1999).
Poiché a Washington era chiaro lo svolgimento di una guerra mondiale economica e mediatica delle multinazionali occidentali contro Cina, Russia, Iran e Venezuela, guerra alla quale non era estranea l’amministrazione statunitense, Obama ha ritenuto utile intervenire sul prezzo del petrolio, venendo incontro anche al’Unione Europea, strozzata dai prezzi alti, aiuto non gratuito, perché Obama in contropartita aveva chiesto la firma del TTIP, il Trattato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, poi naufragato per altri motivi.
Obama e i sauditi hanno così imposto nel 2014 all’OPEC il barile a 60 dollari, obbligando, se non a estrarre in perdita a pareggiare a malapena i costi. Essendo il petrolio il 75% delle entrate di Caracas e il 60% di Teheran, le difficoltà economiche di queste due nazioni si sono moltiplicate.
Ugualmente in difficoltà si è trovata la Russia che aveva allora dal petrolio il 40% degli utili del suo export. Di più, Obama aveva deciso di lanciare in grande stile l’estrazione interna di petrolio di scisto con una liberalizzazione estrema, favorevole a piccoli produttori che hanno iniziato a devastare l’ambiente statunitense, ma a fornire una cifra considerevole del fabbisogno interno di petrolio, con prezzi che potevano rimanere tra i cinque e i dieci dollari al barile sotto il prezzo stabilito dall’OPEC, intorno ai 50 dollari. Negli anni 2015 – 2016 la Russia ha visto ridursi del 20% le sue entrate complessive a cui ha risposto senza permettere ricadute sui cittadini, ma assottigliando le riserve nazionali, tuttavia immaginare che Vladimir Putin avrebbe accettato supinamente questo brutale attacco è stato ingenuo.
Il presidente russo infatti ha iniziato una triplice azione, diversificare le esportazioni, concentrare massimamente la vendita di petrolio verso la Cina Popolare di Xi Jinping, riducendo al minimo la vendita verso altri paesi e ancorando lo scambio con i cinesi non al valore del barile ma a scambi bilaterali, accrescere in maniera notevolissima le riserve auree.
Poiché la Cina è il primo importatore mondiale, cinesi e russi hanno potuto far scendere il prezzo ufficiale del barile a circa 25 dollari, una cifra disastrosa per qualunque produttore di petrolio, ma che soprattutto mette in difficoltà le petro – monarchie della penisola arabica e gli Stati Uniti, che vedono rovinato il mercato interno del petrolio di scisto e le timide esportazioni che avevano iniziato a compensare la riduzione di consumi nazionali.
È evidente che con Iran e Venezuela la Russia e la Cina abbiano preso accordi compensativi, per cercare di lenire una situazione dalla quale entrambi i paesi restano fortemente danneggiati per il prezzo stracciato del barile. In ogni caso è evidente che se il prezzo del barile è una variabile dello scontro mondiale tra unipolarismo occidentale e multipolarismo, russi e cinesi non sono rimasti a guardare, ma hanno deciso con forza di rispondere attuando una strategia lungimirante, infatti gli sforzi sauditi per ridurre l’estrazione mondiale e far risalire almeno a 50 o 60 dollari il barile, per evitare l’estrazione in perdita e aiutare l’alleato a stelle e strisce al momento si sono rivelati inefficaci.