Ricorrono nei film di Bellocchio una grande cura dell’immagine e della colonna sonora, per cui ogni visione è innanzitutto un piacere sensoriale che diviene un’opera d’arte di grande rispetto quando è capace di evocare temi profondi.
Il primo riconoscimento cinematografico proietta Bellocchio nel cuore delle proteste del ’68: “I pugni in tasca” (1965) affronta gli argomenti dell’assassinio della madre, dell’insanità mentale e della critica alla società borghese.
Queste situazioni complesse sono riprese ne “L’ora di religione” (2009) e riviste alla luce dei quaranta anni intercorsi. Della deflagrazione del Sessantotto si possono solo udire nostalgici echi: allora il regista esordiente poteva conferire al giovane protagonista de “I pugni in tasca”, un feroce Lou Castel, un atteggiamento più crudo e determinato rispetto al pittore protagonista de “L’ora di religione” più maturo, padre e in crisi. Dall’ardore di un ragazzo, pazzo, che compie l’omicidio che permetterà ai fratelli di uscire dall’ambiente domestico insalubre, simbolizzante una cultura e una tradizione opprimente, beghina e borghese come la madre assassinata.
Il messaggio di un violento scontro generazionale e ideale è chiaro. Al maschio del secondo millennio che conduce una piccola ribellione personale avvalendosi di un’ironia mordace come strumento di critica, allo scopo di ribadire la propria coerenza, soprattutto nei confronti del figlio, e il proprio ateismo con la frase: “Innamorarmi, per esempio, una storia d’amore, penso che in questo momento sarebbe la più grande professione di ateismo che io mi possa permettere. Non innamorarmi genericamente del prossimo, eh! …ma innamorarmi di una persona, di una donna”. Non solo l’artista interpretato da Sergio Castellito ne “L’ora di religione” è confuso e non comprende il proprio tempo, pure tutta la sua famiglia persegue un obiettivo anacronistico: la santificazione della madre del protagonista, pugnalata a morte dal fratello con disturbi psichici dopo l’ennesimo rimprovero alle sue bestemmie.
Le differenze tra le due pellicole sono emblematiche delle sicurezze sociali, traguardo delle dure lotte dei secoli scorsi, venute meno in questi quaranta anni. Nel frattempo il capitalismo ha saputo inglobare parte delle critiche sessantottine sedando le voci contrarie esacerbatesi in quel tempo. Il contesto de “L’ora di religione” dipinge un’involuzione sociale in termini di precarietà, crisi dei valori, riemergere di un certo conservatorismo, infatti l’artista de “L’ora di religione” vi si oppone conducendo una battaglia individuale contro i parenti che cercano un’assicurazione sociale nei salotti delle istituzioni ecclesiastiche. Il tema dell’insanità mentale ritorna meno potente ne “L’ora di religione”, ma anche qui capace di perpetrare l’atto omicida che i sani possono solo vagheggiare. La madre, l’incarnazione dell’oppressione dei valori e della tradizione bigotta e borghese, significativamente, viene rivalutata e strumentalizzata nella pellicola più recente sotto la forma suprema della santificazione.
Bellocchio è acuto nell’osservazione e comprensione dei paradigmi sociali ed è capace di riportarli nelle proprie opere con grande gusto e maestria, l’invito è quello di incamminarsi in un viaggio temporale tra gli anni ’60 e l’inizio del nostro millennio grazie alle due pellicole “I pugni in tasca” (1965) e “L’ora di religione” (2009), diretti dallo stesso regista sensibile a due contesti socio-economici molto diversi.
Lea Ferrari