Fumi della Fornace di Valle Cascia, come sempre lotta e cultura

I Fumi della Fornace – Festa della Poesia di Valle Cascia, procede di anno in anno con entusiasmo, mietendo i giusti, meritati e crescenti successi, risultato di una direzione artistica di profonda sensibilità, composta da Valentina Compagnucci, Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi.

Quest’agosto 2024 si è tenuta la sesta edizione, nel solco del recupero iniziato lo scorso anno dello spazio che ha segnato la storia di questa frazione del comune maceratese di Montecassiano, ovvero la fabbrica di mattoni. Il rito teatrale collettivo, quest’anno avvalsosi del pregevole occhio registico di Danilo Maglio, in scena come sempre al tramonto, si è svolto per il secondo anno tra le mura operaie, rappresentando la seconda parte (dal titolo “Ora vattene, fratello mio”) di una trilogia  con cui l’autore Giorgiomaria Cornelio ci ricorda la complessità non disgiungibile tra arte, lotta e territorio. Il prossimo anno l’ultima parte di questo cammino si intitolerà “Anche l’edera si arrampica sulla storia”, cosicché, dopo la violenza padronale della fabbrica sulle donne e sugli uomini messa in scena l’anno scorso e la repressione capace di trasformarsi in violenza fratricida di quest’anno, sarà la volta di una redenzione, sempre auspicabilmente possibile, oltre le crepe e dentro le crepe, ferite aperte dei luoghi e degli esseri umani.

Davvero straordinario come attraverso il teatro, la poesia, la riflessione personale e collettiva, un luogo operaio ridotto a triste rudere di archeologia industriale, torni a essere cuore vivo e pulsante del quartiere, almeno per alcune giornate, dimostrando quanto spazi fisici, geografici e dell’anima, cittadinanza ed arte siano assolutamente più efficaci quando si fondono in un progetto unitario.

A essere indagata quest’anno è la dimensione straniante del dolore e della repressione: se l’anno scorso si respirava qualche anelito di speranza dentro “Una favola per uomini, bestie e piante rampicanti”, quest’anno, dentro il dramma dell’incapacità dei percorsi collettivi di farsi concreto futuro, ecco che primeggia, in tragica sintonia con gli attuali tempi di guerra, la devastante solitudine che annienta tanto l’individuo, quanto il suo diritto ad agire insieme agli altri per un domani giusto e solidale.

Apre lo spettacolo una ragazza che trascina una croce, solo improvvidi non conoscitori della produzione poetica e artistica del collettivo Congerie potrebbero attribuire una qualche blasfemia a questo gesto, tutt’altro, anzi è la piena rappresentazione di come la concreta, fisica, materiale morte del sacro, personale e collettivo, spalanchi le porte alla violenza e alla sopraffazione.

Le parole del testo, mentre i ragazzi si muovono tra le macerie del lavoro e dell’anima, sono sempre toccanti e di straordinaria sensibilità: “Il collasso di un’ecologia che manteneva gli uomini poco numerosi e in sintonia con il mistero e la diversità di tutta la vita ha portato, come per una diabolica Caduta, alla caccia e all’allevamento dell’uomo da parte dell’uomo, all’accaparramento del grano e alla secolarizzazione di tutto lo spazio. Per difendere i suoi campi, un contadino aveva bisogno di molti associati figli, co – protettori, co – combattenti e, infine, fratelli ideologi.” È chiaro, è la solidarietà ad essere stata uccisa. Sarà una ragazza a cercare una forma di resistenza: “Io cerco di esprimere quella che, secondo me, è in realtà la fratellanza e comincia nella condivisione del dolore.” L’essere umano tuttavia è lasciato solo, troppo forte e troppo potente la reazione, aggredito, tra il sangue e il pianto, gli restano solo le ingiurie verso chi lo bastona, capaci di gonfiare il petto e il cielo.

È una tragica eternizzazione del dolore, della sofferenza, della sconfitta: “Qualcuno dà gli ultimi ordini. Qualcuno li esegue. E nel regno s’insempra la sconfitta.” Così: “nel colmo del bene il bene s’accascia. Svanisce. Non c’è giustizia.” Costole, mandibole e teste fracassate non troveranno giustizia, anzi, è la violenza la cifra della giustizia del potere, è “il sermone dei manganelli. Il giudice somministra colpe più ancora che assoluzioni.” Tuttavia la violenza e l’ingiusto potere che l’impartisce non impediscono agli ultimi resistenti, ombre, fantasmi, cittadini, ex operai di domandarsi: “cosa resterà di questi mattoni?”, anche perché “la fabbrica è ancora umida di rivoluzione.” D’altronde la vittoria degli ultimi, dei lavoratori, dei “poveri cristi”, voleva essere una festa durevole, “un sogno pungente, turchese di eresia, rozzo e grandioso”. Invece tutto viene risucchiato in un male che esonda, che fa suo il mondo, in un quadro di lugubre oppressione, di drammatica consapevolezza: “tutto sarà davvero sterile. Dalla fabbrica non deve sorgere più niente. Spenta è la fornace. E il mio becco violato. E la mia ala nata rotta”, tuttavia il seme del riscatto è soffocato, ma forse non per sempre, perché “non c’è creatura che non sia un popolo. Il dolore è collettivo”, obbligando a cercare in sé “ogni cosa estinta, ogni debito, ogni incandescenza nel limo opaco di tutte le vite negate”. Gli uomini forse “non sanno migrare leggeri”,  ma certamente non fanno “il nido nei carri armati”.

Tutto il passato del mondo, delle donne e degli uomini, di ciascuno di noi, non ci rende mai consapevoli di come si debba affrontare il futuro. L’ammonimento di Giorgiomaria Cornelio è severo, pertinace e pertinente: “Ci si imprepara, a testa bassa, scollando dai memoriali il carbone glabro dei massacri. Nei giorni del dire come nei giorni del tacere. … Non è semplice slentare la presa dei passati. Dimenticare il carro agricolo, l’inguaio delle ciminiere, l’enorme reggimento coi soldati. Li portiamo dentro. Dobbiamo farlo, come un prezioso brucìo. Ma non ci legheranno in eterno.” L’attesa di una nuova resurrezione non è un’attendistica speranza estromessa, nel senso stretto del termine, ovvero posta fuori da sé, ma una profonda ed escatologica convinzione che prima o poi occorra rimettere in movimento la consapevolezza e la lotta: “Un giorno scioglieranno le campane. Rimpasteranno da capo i mattoni. Crollerà il massacro, come è crollata la fornace. Allora saremo oltre la montagna, e non diremo più, con rammarico, con pezzo di tempesta: Adesso vattene, fratello mio.”

Niente è perduto finché dentro le metamorfosi della vita e della natura sapremo riconoscere la memoria delle persone e degli oggetti, sarà una “verità non temprata che s’aggrappa al bordo ruvido delle domande.” Anche per questo gli indizi coincidono con la speranza del cuore, la bandiera rossa che chiude il rito collettivo, sventola quest’anno con ancora più forza, a segno che a volte la disperazione e la rinascita si nutrono di un abbraccio fraterno e scambievole.

Ancora una volta i ragazzi dell’associazione Congerie hanno dimostrato come un esercizio collettivo d’immaginazione possa vincere la colonizzazione del nostro immaginario, praticata con violenza da un sistema che, dietro la patina del pluralismo, promuove omologanti ripiegamenti conformistici. Non solo il meraviglioso rito serale, ma tutte le giornate dell’intera settimana, tra poesie, installazioni, musica, dibattiti, libri, hanno brillato per qualità e partecipazione, in un quadro di crescita artistica e di pubblico, con la partecipazione di tanti ospiti, amiche e amici, a partire da Luigi Lo Cascio, da anni sempre felicemente presente. Meritoriamente la Regione Marche e i comuni circonvicini appoggiano e sostengono i Fumi della Fornace, anche la comunità di Valle Cascia è sempre più partecipe, al contrario il comune di Montecassiano e in particolare il sindaco Leonardo Catena mostrano una miserevole avversione, svilendo questa Festa della Poesia, colpendola con gabbie orarie e un’assenza istituzionale imbarazzante, soprattutto agli occhi dei tanti estimatori del lavoro dei ragazzi di Congerie che ogni anno a fine agosto qui convergono da tutta Italia e anche da tante parti d’Europa e del mondo. Quest’anno addirittura si è arrivati all’incredibile iniziativa comunale di aprire fantomatici cantieri che cercano soltanto di intralciare l’opera degli organizzatori. Segno palese di una virulenta ignoranza che non vuole prendere atto di come questi ragazzi straordinari abbiano portato una rosa nel deserto, sollevando il problema delle aree industriali dismesse, che non può essere occultato semplicemente dimenticandole a vantaggio di un ornativo decoro dei centri storici medievali.

Tuttavia Congerie dimostra di volare ben più alto dei dispetti e delle bassezze altrui, consapevole che il pensiero e la libertà di pensiero siano semi profondi di umanità capaci di abbracciare quanto li circonda, a partire dai diritti  delle donne e degli uomini che vivono a Valle Cascia.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.