Bellissimo.
“Strannye chasticy” (Strange Particles, 2014), opera del russo Denis Klebleev (1981), è capace, in meno di un’ora, di emozionare e far riflettere.
Konstantin è un giovane fisico quantistico, professore universitario.
Il suo è uno sprofondare nello studio: lo fa sui fogli, riempiti di formule, e lo fa anche attraverso il telefono, aggiornandosi e discutendo coi colleghi. Tutte le esperienze che vive lo riconducono alla fisica: la musica di Bach, per esempio, è un pretesto per restituire l’universo quale campo di forze. Per Konstantin, alla luce di ciò, il tempo libero non esiste quale dimensione a sé stante.
E, per di più, la caratura dell’attività che egli svolge è in forte contrasto col contesto in cui questa avviene: i mosquitos si aggirano fastidiosamente nello stanzino in cui lavora e, per il lusso, per gli elementi del buon vivere, sembra esserci ben poco spazio. Lo stridio si sente forte, e, pur nel restituirci una condizione sostanzialmente negativa – Konstantin merita di più! -, risulta affascinante e ci parla di una Russia geniale quanto tenace.
Durante le vacanze, Konstantin lavora in un un campo estivo per ragazzi.
Colpisce – e se ben lo si coglie è struggente – il fossato profondo che separa, da una parte, il generale comportamento condiviso dai partecipanti al campo e, dall’altra, quello adottato da Konstantin. I presupposti di tale divergenza, chiaramente, si legano alle funzioni che egli esercita: di giorno insegnante, di sera e di notte sorvegliante – censore, cioè, del divertimento, prelibata e insostituibile materia prima adolescenziale.
Ma c’è di più, e probabilmente è ciò che conta. Viene da dire, in tal senso, che Konstantin non è un semplice e ordinario insegnante-sorvegliante: egli, più specificatamente, vive in un proprio mondo. È il mondo della fisica (quantistica), ma potrebbe essere tranquillamente quello della chimica, nonché, per allontanarsi dalle scienze pure, quello della filosofia oppure quello delle lettere antiche. È il mondo, insomma, del sapere. Un sapere che, nella declinazione peculiare che qui interessa, è estremamente conchiuso, non tanto rispetto all’ambito della pratica – Konstantin, per esempio, potrebbe senza alcuna difficoltà partecipare a progetti nell’ambito dei quali i suoi studi vengano messi all’opera concretamente, con potenziali effetti sulle condizioni della società a lui contemporanea – quanto, più che altro, nei confronti della quotidianità e di chi la popola. Non c’è compatibilità e armonia, per Konstantin, nell’approccio a quest’ultima.
È scontroso. Non è abile a livello sportivo. Non è disposto a condividere le modalità di svago e di aggregazione proprie degli altri ragazzi – di poco più grandi di lui. Di dinamiche sentimentali neanche l’ombra. Il granito pare avvolgerlo. Il suo metro di valutazione delle qualità personali ruota attorno al grado di dedizione verso lo studio, nient’altro sembra contare. S’interfaccia con le persone solo e soltanto quando di mezzo c’è la fisica; ma evidentemente questa non è la lingua adeguata per ricercare un’interazione con i giovani frequentatori del campo.
Pare quasi che, forzatamente, la fedeltà che Konstantin presta alla fisica porti con sé l’imposizione del divorzio dalle pratiche vigenti nel mondo esterno, dalla sua normalità.
Invero, nei frangenti finali della pellicola, deluso per la sua condizione, egli realizzerà con estrema lucidità di essere un pesce fuor d’acqua. Ammetterà, in linea a ciò, la sostanziale difficoltà nell’intrattenere effettive ed autentiche relazioni sociali al di fuori di quelle dettate dalla necessità di effettuare confronti inter-personali a finalità scientifica.
Questo commento non vuole essere, in nessun modo, una lode oppure un’apologia della figura dell’intellettuale freischwebend rispetto alla quotidianità concreta.
Infatti, l’emozione causata dal vissuto problematico di Konstantin non può essere disgiunta – e con ciò accettata, apprezzata in sé – dall’analisi critica di tale dinamica, proprio in virtù della volontà di risolvere le cause scatenanti tale malessere.
Dimostrare – in un XXI secolo nel quale è auspicabile che le scienze (pure, applicate e umane) svolgano un importante protagonismo – la stretta contiguità tra ricerca scientifica e vissuto quotidiano; allargare considerevolmente conoscenze e pratiche scientifiche, evitando di concentrarle su uno sparuto gruppo di individui: evitare cioè – nel solco di un realisticamente progressivo superamento della divisione tra lavoro intellettuale e lavoro materiale – di tracciare una netta linea di demarcazione tra, da una parte, ricercatori e, dall’altra, fruitori passivi e inconsapevoli. Questo deve essere l’orizzonte.
Aris Della Fontana