BERNA – Il movimento è stato grande, in parte inaspettato, e per la realtà svizzera di notevole entità, anche nei numeri. Se Losanna era stata occupata ancora nel 1997, a Ginevra e a Berna agitazioni simili sono da ricercare più indietro nel tempo. L’ultima occupazione all’Università di Zurigo era nel gennaio 2003, io stesso collaboravo nei picchetti, ma oggettivamente non vi era allora sufficiente consenso e preparazione della base e l’azione non ebbe un grande risalto.
Da allora è cambiato molto nel mondo accademico, basti pensare all’implementazione della riforma di Bologna. Tuttavia le rivendicazioni sono in fondo le stesse. Nel 2003 si lottava contro l’aumento delle rette, oggi anche; nel 2003 si lottava contro la presenza negli organi direttivi di ateneo di dirigenti delle multinazionali, oggi anche; nel 2003 si avvertiva dei problemi che la riforma di Bologna avrebbe comportato, oggi che Bologna ha conquistato la Svizzera si dà ragione alla generazione di allora. Quest’anno abbiamo vissuto assemblee piene e partecipate, un movimento che senza dubbio per la realtà elvetica va annoverato fra i movimenti di massa nei quali i comunisti non potevano essere meri spettatori.
A Berna, i giovani comunisti sono stati non solo attivi nel servizio di sicurezza ma anche nell’elaborazione attiva delle posizioni operando nelle commissioni assembleari e prendendo la parola nei plenum, hanno cioè rotto, finalmente, con la tradizione che spesso ha caratterizzato il Partito del Lavoro, e cioè di essere semplice retroguardia dei movimenti spontanei.
Ancora molto lavoro c’è da fare però per poter essere in grado di offrire al movimento una direzione politica sicura: quello che abbiamo visto è un defilarsi delle organizzazioni studentesche ufficiali (a maggioranza socialiste), incapaci di vedere un palmo al di là dell’istituzionalismo, lasciando così campo libero a “leaderucoli” autoproclamati (che però, naturalmente, agiscono nel nome della “democrazia di base”), privi spesso di senso politico (nonché con serie difficoltà a stabilire le priorità e a parlare con le persone – securini, studenti spoliticizzati, giornalisti – al di fuori della propria cerchia). Provenienti nella migliore delle ipotesi da gruppuscoli estremisti e, nella peggiore, “individualità anarchiche” incapaci per loro natura di costruire un discorso di massa e collettivo, essi sono propensi invece all’avventurismo che va a finire nel vuoto, nonostante – grazie alla demagogia idealista che utilizzano – possano in una prima fase entusiasmare la base.
I limiti di questo movimento sono presto detti: la mancanza di una organizzazione sindacale studentesca stabile a livello nazionale, ma anche a livello di ateneo, ha permesso il sorgere spesso di un’egemonia spontaneista nelle modalità organizzative e persino nelle rivendicazioni.
Il consenso lo si ottiene con rivendicazioni concrete e pragmatiche sentite dalla maggioranza, dopodiché si può procedere all’analisi sociale della situazione (e cioè una critica al capitalismo come causa fondamentale dei problemi universitari) qualora la base si dimostri avanzata (e in parte, nel caso concreto, lo era). Ma questo solo una volta consolidata l’unità studentesca e dunque l’occupazione, non fine a se stessa, ma come strumento capace di ottenere risultati.
Scaraventare invece l’analisi ideologica alla prima assemblea generale ancora prima di aver stabilito le rivendicazioni sindacali significa due cose: o ingenuità oppure disfattismo estremista, di coloro cioè che, frustrati dal fatto che la rivoluzione non sia ancora giunta, cercano di avere almeno per un po’ l’attenzione della base glorificando quello che altro non è che una modalità di lavoro “gruppettara” che svanisce necessariamente come un fuoco di paglia. Una linea di massa completamente sbagliata in molti casi, insomma, che ha reso alcuni momenti assembleari quasi delle realtà auto-referenziali e che ha costituito forse la lacuna più grave di questo movimento.
Va però detto, a onor del vero, che queste situazioni sono state anche riconosciute dagli studenti stessi e in parte sono state corrette nel corso dell’occupazione. Non così invece è andata a Basilea, dove il movimento si è soffocato da solo in breve tempo, e non molto meglio è la situazione bernese.
Pur nelle contraddizioni è stato un movimento sociale ampio e che ha permesso agli studenti di ritrovare un protagonismo che da anni mancava. Sarà però determinante che i comunisti si sviluppino come presenza sul territorio e si facciano riconoscere dalla base come punti di riferimento. Ricordando sempre che i comunisti, a differenza di alcuni dei “leaderucoli” di cui sopra, devono parlare alla “gente normale”, a quegli studenti cioè che, pur interessati dal discorso di fondo, si sentivano spaesati vedendo la gente esprimere il proprio consenso girando i palmi delle mani un paio di volte secondo la modalità di “voto” anarchica, che rendeva il tutto una pagliacciata. Oppure che, dopo due ore di discussione sul “metodo con cui prendere le decisioni”, ritenessero di avere di meglio da fare. O ancora che, dopo un’ora di litigio sul fatto che fra le rivendicazioni studentesche fosse o meno necessario aggiungere un paragrafo contro la “società patriarcale” o il “veganismo”, si rendevano conto che si trattava di discussioni estemporanee, del tutto lontane dalla proprio realtà di studente (ma anche di studente-lavoratore) e dunque se ne disinteressavano.
Per questa ragione i giovani comunisti attivi nel milieu accademico hanno fatto bene a diffondere un volantino con rivendicazioni concrete e l’ipotesi di creare un vero e serio sindacato studentesco in alternativa al solenne “casino” che troppi studenti hanno percepito.