La mattina del 13 maggio scorso un gruppo di studenti dell’università di Torino ha occupato Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche e relative biblioteche. Un’azione che si inseriva nell’ambito del più ampio movimento internazionale degli studenti per la Palestina, che nel nostro Paese ha occupato in vari modi gli atenei e i politecnici della Svizzera interna, con la differenza però che nelle università italiane vi è una maggiore propensione alla conflittualità, anche se spesso inconcludente.
Gli antefatti risalgono al novembre 2023
Risale infatti allo scorso novembre l’ultima occupazione pro Palestina di Palazzo nuovo, durata due giorni e finita pacificamente poiché sono stati gli stessi studenti a lasciare la struttura senza ottenere nulla. Da quella dimostrazione si è cercato di instaurare un dialogo con l’amministrazione e il rettore al fine di ottenere più trasparenza riguardo alle relazioni che l’università intrattiene con le istituzioni accademiche israeliane, dal momento che è noto che esistono accordi secretati di cui è ignoto persino l’oggetto, figurarsi i termini specifici. Nei mesi successivi il picco della conflittualità si è raggiunto con l’irruzione di alcuni studenti appartenenti a collettivi autonomi nell’aula dove si teneva il Senato Accademico che doveva ratificare l’adesione ad un bando del Ministero italiano degli Affari Esteri (detto “bando MAECI” dal nome del Ministero), che avrebbe stretto ancora di più i legami con Israele. In quell’occasione, sotto la pressione degli studenti, il Senato Accademico ha rinunciato all’adesione al bando MAECI 2024, pur senza ridiscutere tutte le collaborazioni con l’Entità sionista. Se da ciò si volesse trarre una lezione generale bisognerebbe ribadire con una certa ovvietà che i risultati, seppur parziali, si raggiungono quando il movimento è forte e i rapporti di forza sono favorevoli.
Le lezioni a distanza come strumento per impedire le proteste
A sette mesi dalla breve esperienza dell’occupazione novembrina però non si sono ottenuti altri risultati di rilievo. Dopo il fallimento dei tentativi di interlocuzione con il rettore, e dato lo sviluppo internazionale del movimento pro-Palestina si è giunti all’occupazione del 13 maggio, che verosimilmente nella mente di tutti doveva essere una semplice dimostrazione ideologica, con un apparato rivendicativo giustamente esigente che però non avrebbe portato a nulla. Chi ha avuto questa idea è stato subito sconfessato dai fatti: il giorno stesso il rettore dichiara la struttura luogo “non sicuro”, impedendo a tutti i dipendenti e lavoratori esternalizzati di accedere agli spazi di Palazzo Nuovo, e generando così un arresto completo delle attività in presenza. La didattica è stata riadattata in versione a distanza, mentre le biblioteche, punto cardine dell’occupazione sono rimaste completamente chiuse.
Una reazione repressiva che però era prevedibile: in primo luogo bisogna considerare che a livello internazionale le occupazioni degli atenei hanno investito mezzo occidente, quasi tutta Italia e ben tre poli universitari nella stessa Torino (Palazzo Nuovo, Dipartimento di Fisica e Politecnico), e inoltre le richieste degli occupanti andavano a cogliere realmente dei punti fondamentali su cui le istituzioni occidentali non potevano retrocedere, ossia il disconoscimento della propaganda atlantista e l’arresto del sostegno a un territorio chiave nella preservazione degli interessi imperialistici dell’occidente. Infatti le richieste consistevano nella condanna del genocidio del popolo Palestinese da parte del Senato Accademico, trasparenza riguardo alle collaborazioni internazionali dell’università e rescissione di tutti gli accordi con Israele.
Torino è l’avanguardia del movimento in Italia: il rettore alza il livello del conflitto
La postura dei dirigenti dell’università inoltre mirava ad aumentare il livello dello scontro al fine di fomentare i lavoratori e gli studenti non occupanti contro il movimento, di modo da far cedere gli occupanti senza nemmeno muovere un dito. Le priorità per il movimento diventavano quindi: 1) resistere ad oltranza; 2) compattare il fronte con i lavoratori lasciati a casa dall’intransigenza del rettore; 3) compattare il fronte con gli studenti che non potevano accedere alle biblioteche e costretti a seguire le lezioni online dalla stessa intransigenza; 4) allargare il movimento alla società civile per raccogliere il massimo sostegno e aumentare la pressione sul rettore.
Nel giro di uno o due giorni Palazzo nuovo è divenuto l’unica struttura universitaria in Italia ad aver sospeso le lezioni; mentre a Firenze si chiamava “occupazione” una manifestazione permanente in una piazza, a Torino invece ci si trovava catapultati ad essere l’avanguardia del movimento italiano a favore della Palestina. Le priorità erano state identificate ed erano stati nominati dei responsabili, i quali dopo un primo momento di sfiducia reciproca, hanno saputo portare dalla loro una buona parte di lavoratori, docenti e studenti, tanto che chi inizialmente aveva firmato un appello per lo sgombero di Palazzo Nuovo, ha poi trasformato la loro posizione in sostegno all’occupazione e contro all’intransigenza del rettore, che per ubbidire agli interessi del capitale aveva causato disagi a tutti coloro legati a vario titolo all’università. Di fatto in quel momento il movimento procedeva in un modo che se fosse stato mantenuto avrebbe portato all’accoglimento totale delle richieste.
Anche la politica istituzionale si interessa…
In quei giorni si è interessata all’occupazione la politica istituzionale, con un’europarlamentare leghista che ha cercato lo scontro per fare la vittima sui social ed indire successivamente una manifestazione a cui hanno partecipato, oltre a lei, solo cinque persone, mentre sulle scale dello stabile occupato vi erano un paio di centinaia di studenti; ma anche la senatrice Ilaria Cucchi, con tutti i mal di pancia che può lasciare il suo partito, ha visitato di persona l’ateneo occupato. La manifestazione leghista e la visita della senatrice sono avvenute lo stesso giorno a distanza di qualche decina di minuti e neanche un’ora prima che Piergiorgio Odifreddi presentasse il suo ultimo libro davanti ad un’aula magna dalla capacità teorica di 200 persone che però straripava. Chi, senza una particolare inclinazione pessimista o conoscenza delle dinamiche politiche, fosse passato da Palazzo Nuovo in quei giorni non avrebbe potuto immaginare gli sviluppi ulteriori. E ciò poiché da quel momento c’è stata una retrocessione costante.
Quando assemblearismo caotico e dogmatismo estremista marciano compatti…
Occorre, prima di entrare nel merito, chiarire la composizione del movimento: la stragrande maggioranza di chi ha investito tempo e fatica non era membro di alcun collettivo, partito o movimento, mentre in termini di organizzazioni, tutte comunque non eccedenti la decina di persone, erano presenti alcuni collettivi autonomi e/o anarchici, un gruppo studentesco genericamente di sinistra-birkenstock e il Fronte della Gioventù Comunista (FGC), ossia la succursale italiana del Partito Comunista Greco (KKE), su posizioni dogmatiche, contrarie al multipolarismo (cioè anti-russe e anti-cinesi) e a favore della soluzione a 2 Stati in Palestina.
In un primo momento vi è stato un rallentamento sul fronte della società civile: non riuscendo a identificare un personaggio di rilievo da invitare senza creare malumori che facessero porre veti incrociati, si è determinata una perdita di appiglio sulla società civile, alleata invece importantissima, cosicché le centinaia di esterni che giornalmente seguivano gli eventi e gli sviluppi sono diventate prima qualche decina via via fino a qualche unità.
In secondo luogo l’orizzontalismo delle assemblee ha impedito un funzionamento agile della progressione del lavoro sul fronte delle relazioni con lavoratori, docenti e studenti, dal momento che ogni responsabile era tenuto a riferire i suoi avanzamenti e ricevere istruzioni dall’assemblea: in tre settimane non si è riusciti a organizzare un solo intervento di un professore solidale. Ci sono due modi per sabotare dall’interno un movimento: o creare un’élite che decide da sola e non si confronta con la base (come avvenuto a Friborgo), oppure esasperare la necessità dell’autogestione dal basso fino a ingolfare il funzionamento della macchina operativa che non è così in grado di rispondere ai tempi serrati della politica. L’assenza di consapevolezza politico-sindacale di molti giovani accademici rende piuttosto facile attuare questa prassi, basta giocare sulle belle narrazioni.
In terzo luogo si è aggiunta un’assemblea nazionale tenutasi ha Roma, di cui non è stata capita l’inutilità, dal momento che Torino rappresentava, come detto sopra, l’avanguardia e pertanto sarebbe stata l’assemblea nazionale a doversi adeguare a Torino e non viceversa. Questo errore di valutazione ha fatto in modo che la maggior parte degli studenti con un senso politico sviluppato partisse per Roma pensando di discutere davvero sul futuro del movimento, lasciando in realtà il FGC libero di imporre la sua linea su Torino, dal momento che i membri dei collettivi rimasti si sono impegnati a organizzare eventi slegati dalla situazione concreta su cui però mettere la loro bandierina, come ad esempio una conferenza (invero alquanto delirante) su come il pensiero di Abdullah Öcalan possa risolvere tutti i mali del mondo compreso il conflitto israelo-palestinese. Come spesso accade l’onnipresente separatismo curdo viene usato per deviare un movimento di massa e dividerlo.
Nei momenti clou di una lotta gli opportunisti si uniscono per deviare il movimento su un binario morto
A questo punto e con queste condizioni, il FGC ha iniziato a spingere per la riapertura delle biblioteche come “segnale di apertura al dialogo”, e l’assemblea ha approvato come principio di negoziazione lo scambio “biblioteche aperte in cambio della rescissione degli accordi dual use e riapertura totale in cambio della rescissione di tutti gli accordi”, senonché, mentre la parte politicizzata del movimento era a Roma, e senza previo assenso dell’assemblea, il FGC con l’assenso di alcuni autonomi privi di senso politico, ha aperto le porte a una commissione peritale dell’università per la riapertura in sicurezza, che ha fatto smantellare tutte le barricate e ogni dispositivo e accorgimento degli occupanti, da quelli di sicurezza contro lo sgombero di polizia a quelle comodità che rendevano Palazzo Nuovo abitabile. Le guardie giurate (armate) di sicurezza privata hanno così fatto ritorno negli spazi occupati e hanno presidiato lo stabile per la notte.
Di fatto è stato compiuto uno sgombero senza sgombero, facendo perdere agli occupanti la posizione negoziale favorevole che in queste settimane è stata costruita. Ciò è dovuto in parte alla miopia tipica degli anarchici, che affrontano i movimenti come questioni di principio senza considerare le conseguenze pratiche delle loro azioni, ma soprattutto per l’atteggiamento intrinsecamente traditore dei finti marxisti-leninisti del FGC, che per settimane ha remato contro all’occupazione, e sfruttando le debolezze strutturali del movimento l’ha fatto naufragare. È questa la prassi normale dei comunisti ormai noti come “filo-greci” in tutta Europa, tesa alla divisione e alla frammentazione, che dove può si mette di traverso allo sviluppo di un movimento che sviluppi una coscienza anti-imperialista, giacché il KKE sostiene una posizione fintamente anti-imperialista che nei fatti è completamente allineata agli interessi dell’atlantismo.
Anche le elezioni europee contano…
Inoltre occorre considerare che uno dei motivi per cui è stato possibile che l’occupazione non venisse sgomberata è il fatto che l’8 e il 9 giugno si terranno le elezioni europee, e per quanto alcuni professori oltranzisti abbiano presentato un esposto richiedendo lo sgombero di polizia già settimane fa, le forze dell’ordine non hanno potuto dare seguito alla richiesta poiché, dal punto di vista esecutivo, si trovano sotto organico in quanto impegnate nel mantenimento della pubblica sicurezza in vista delle elezioni europee mentre dal punto di vista politico sarebbe stato un autogol enorme.
Questa informazione era nota al FGC da giorni poiché dispongono di un rappresentante nel Consiglio di Dipartimento della facoltà di Filosofia, ma non è mai stata condivisa con altri, risultando nell’organizzazione di iniziative di poco interesse invece di lavorare per la costruzione di un movimento trasversale che raccogliesse il sostegno della società civile per impedire lo sgombero. Se si sia trattato di un disegno preciso o semplice negligenza è difficile da dire, e allo stesso modo non si può dire quale delle due eventualità sia quella con maggiore colpa, ma è fuori di dubbio che in entrambi i casi la colpevolezza del FGC è enorme.
Il ribelle piccolo-borghese che gioca all’estremista in realtà è disfattista
Manca ad ora meno di una settimana allo sgombero previsto e sono state sprecate innumerevoli occasioni e una quantità di tempo enorme che potevano essere impiegate per contrastare la reazione. Dopo più di tre settimane è chiaro che la stanchezza sia presente, ma il fatto che non vi sia una reazione forte alla prassi nefasta del FGC è sintomo di un disfattismo che si insinua nel movimento.
Questa esperienza avrebbe potuto rappresentare un punto di svolta sia per il movimento studentesco ma anche per gli equilibri parlamentari, visto e considerato l’interesse di questi movimenti non solo di Alleanza Verdi Sinistra (partito di Cucchi) ma anche del Movimento 5 Stelle.
Purtroppo le finestre di possibilità si stanno via via chiudendo, e se non vi sarà un ritorno alla prassi che ha portato all’apice del movimento, questo si perderà come una lacrima nella pioggia, senza essere riuscito a fermare alcuna lacrima dei bambini palestinesi che ha cercato di salvare.