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Occupazioni nelle università svizzere: un primo bilancio

Il vento dell’intifada fischia nei corridoi e nelle sale degli atenei svizzeri. Dopo più di otto mesi di massacri indiscriminati ed industrializzati (quindi, di genocidio) compiuto dalle truppe di occupazione israeliane nei confronti della popolazione palestinese che, nonostante tutto, continua a resistere, e sulla scia dei movimenti di protesta che hanno attraversato tutto il mondo occidentale, messo fatalmente di fronte a tutta la sua ipocrisia e la sua violenza, anche gli studenti svizzeri hanno deciso di trasformare le università in luoghi di confronto politico; perché diventino, da recettori passivi e propagatori attivi delle istanze imperialiste occidentali e del sionismo quali sono oggi, a megafono della lotta di liberazione nazionale palestinese; perché, come diceva il grande rivoluzionario cubano, “non possiamo essere indifferenti verso ciò che capita nel resto del mondo, poiché la vittoria di un qualunque paese contro l’imperialismo è anche la nostra vittoria”, esattamente com’è vero l’inverso. E proprio tutti, anche gli studenti meno politicizzati, pur non conoscendo queste parole, ne attivano la verità storica quando si mobilitano per raggiungere i presidi e le occupazioni.

L’ingresso all’Università di Friborgo.

Gli studenti di Losanna danno il via alla mobilitazione

Il movimento comincia nell’università di Losanna il 2 maggio scorso. Un comitato studentesco di coordinamento chiama a raccolta i sostenitori della causa palestinese per occupare parte dell’edificio scolastico. Le sue richieste s’inseriscono sulla traccia di quelle stilate un po’ ovunque dagli studenti militanti europei ed americani, che si riassumono in sostanza nella trasparenza sulle relazioni tra l’università e gli istituti di ricerca israeliani, la fine delle collaborazioni accademiche e scientifiche con l’entità sionista (com’era stato fatto repentinamente e senza mezze misure nei confronti della Russia nel febbraio di due anni fa), la condanna del genocidio in corso a Gaza e dell’occupazione della Palestina, il boicottaggio delle imprese israeliane e la messa in moto dello stesso numero di risorse economiche e accademiche sbloccate anni prima per i ricercatori ucraini, ma ora per quelli palestinesi. Meno di una settimana dopo (5 maggio), due scuole politecniche federali, quella di Losanna (EPFL) e di Zurigo (ETH), e un’università, quella di Ginevra, sono occupate a loro volta dagli studenti. Se a Zurigo la polizia fa sgombrare quasi immediatamente gli studenti, prelevandoli a forza dal posto, negli altri due istituti la protesta resiste per qualche tempo. Seguono, dopo la festa dell’Ascensione, l’occupazione dell’università di Berna il 12 maggio e quella di Friburgo e Basilea il giorno successivo. Due giorni dopo è il turno dell’università di Zurigo, mentre l’ultima (per ora) è quella di Neuchâtel. Altri istituti insorti sono la scuola d’arte di Berna e l’Alta Scuola di Igegneria e Architettura (Hepia) di Ginevra, prontamente sgombrata senza tanti complimenti, negando ai giovani il diritto di manifestare.

Una reazione repressiva spropositata

Qual è la reazione delle istituzioni accademiche? La risposta è riassumibile in due parole: intimidazione e repressione. I politecnici sono sgomberati quasi subito (a Zurigo è una questione di ore), anche in ragione del loro valore strategico ed alcuni legami forti con Israele (per esempio, l’EPFL ha aiutato nella ricerca le forze di sicurezza dell’apartheid israeliano: vedi qui e qui). Nelle università in pochissimi casi sono intavolate delle trattative (Losanna, Friborgo), che si rivelano però nel giro di pochi giorni (nel caso di Friborgo, uno solo) totalmente prive di contenuto e puramente strumentali, atte a tentare di calmare le acque senza garantire nulla di concreto in cambio della smobilitazione. Nella stragrande maggioranza dei casi non esiste nemmeno un falso tentativo di discussione: le università di Berna, Basilea e Zurigo sono sgombrate in poco tempo; a Ginevra la polizia, anziché chiedere loro di andarsene dopo un ultimatum, arresta in massa 50 studenti verso le cinque del mattino e li rilascia solo nel corso della mattinata. A Friburgo, e un po’ in tutti gli altri atenei (che subito si copiano a vicenda sulle migliori idee per schiacciare il dissenso), il rettorato minaccia di denunciare tutti gli occupanti per “violazione di domicilio”, anche laddove vi sono dei semplici presidi nelle ore di apertura degli stabilimenti, che peraltro mai ostacolano la normale attività didattica. Sempre a Friburgo, sul campus non è inviata la sicurezza dell’università (cosa che avviene solo il 13 maggio e mai più), ma direttamente la polizia cantonale, armata di pistola, che resta sul posto sia durante alcune riunioni sia addirittura preventivamente nel corso di alcune mattinate. Ricordiamo che si tratta di occupazioni e presidi assolutamente pacifici, composti da gente le cui uniche armi sono kefiyyah e bandiere della Palestina. E tuttavia, gli studenti vengono accusati dai vari rettori e rettrici di minacciare la “agibilità degli edifici” (a Berna l’occupazione inizia di domenica), d’intimidire ed “irritare” parte della comunità studentesca, di minacciare la “libertà accademica e di ricerca” (e le università russe?), dell’impiego di metodi “non-democratici” (?) e di “rifiuto del dialogo”, oltre che di usare slogan totalmente o “parzialmente” (qualunque cosa voglia dire) antisemiti. Il tutto, naturalmente, con l’ausilio dei media, che si premurano di far passare gli studenti come niente meno che dei potenziali terroristi e intervistando ONG come la GRA (“Fondazione contro il razzismo e l’antisemitismo”), che non riconosce la situazione di apartheid in Israele (fatto noto e garantito dalle indagini dell’ONU ormai da anni), che considera slogan come “From the river to the sea” antisemiti e che mischia intenzionalmente l’antisemitismo con le contestazioni contro il sionismo.

Un presidio anche all’Università di Neuchâtel.

Il gioco sporco dei media mainstream

È l’ennesimo tentativo, e non sarà di certo l’ultimo, di tracciare una falsa equivalenza tra l’odio per gli ebrei in quanto tali, così come per l’ebraismo, una religione che ha più di 40 secoli di storia, e invece la lotta contro un’ideologia politica di poco più di cent’anni di età, il sionismo, che prevede l’occupazione coloniale della Palestina a qualsiasi prezzo (come, per esempio, una Nakba). Abbiamo anche casi surreali, come quello dell’associazione Svizzera-Israele, la quale “prega” i propri associati di spiare dietro pagamento gli studenti e i loro movimenti associativi di modo da poter denunciare gli “atti antisemiti”. Lasciamo immaginare al lettore quale sarebbe stata la reazione se una qualsiasi associazione privata russa avesse pregato i propri membri di spiare dietro compenso degli studenti per “denunciare” un qualunque gesto d’odio contro i russi. Qui però si parla di uno Stato chiave del sistema di alleanze euroatlantico e quindi, pare, tutto sia concesso; e poco importa se bisogna impiegare gli stessi metodi che si attribuiscono e denunciano ad altri stati “canaglia”, “autoritari”, “dittatoriali”, metodi che peraltro sono valsi come casus belli contro alcuni di loro. Ma l’Occidente è l’Occidente “e voi non siete un cazzo”. Questa è l’essenza delle cose, dopo la reazione poliziesca nelle nostre isole del sapere in Svizzera.

La bancarotta dei valori occidentali

Per il momento nessun movimento studentesco in Svizzera è riuscito ad obbligare il proprio istituto ad accettare in toto le proprie rivendicazioni. È anche vero però che la mobilitazione, nonostante gli sgomberi e le minacce, persiste e continua ad evolversi (a Ginevra sono tornati ad occupare, per esempio), così come è vero che perlomeno i legami e la natura di questi tra gli atenei svizzeri ed israeliani sta venendo chiaramente a galla, preoccupando non poco lo status quo (come i già citati legami dei politecnici con entità sioniste implicate nella repressione, o il caso della rettrice dell’università di Ginevra, da un lato interessata ad espandere i legami accademici con Israele e dall’altro legata ad un marito che lavora in un’azienda che vende reattori all’esercito israeliano). È difficile dire con certezza quale sarà l’esito di questo movimento. Ciò che possiamo affermare senza alcun dubbio è sicuramente la giustezza delle sue ragioni e rivendicazioni e prendere atto della bancarotta totale dell’Occidente come campione della “democrazia” e delle “libertà”. Un campionato di arroganza ed ipocrisia certo già antico, ma che si era tentato di riaffermare negli ultimi due anni in particolare attraverso la sua “solidarietà” (se solidarietà è la politica di rapina di paesi e corporazioni che si spartiscono privatamente intere regioni del paese “aiutato”, come già era avvenuto in ex Jugoslavia) verso l’Ucraina. L’egemonia culturale, intesa in senso gramsciano, dell’Occidente esce nettamente ridimensionata dalla prova palestinese attuale, molto più di quanto non si fosse rivelata vulnerabile nel corso di altri momenti di manifesto “doppiopesismo” per diverse cause e paesi negli ultimi decenni. E il caso palestinese non è che una scena nel mosaico mondiale di popoli che si stanno scrollando di dosso le lunghe e odiose catene del (neo)colonialismo e dell’imperialismo occidentale: un mondo nuovo sta nascendo e vuole nascere, quel mondo che sinora ha vissuto nella periferia dell’Impero, umiliato e sfruttato. Questo mondo sarà, che lo vorremo o meno, perché l’emancipazione dei popoli è un processo storico incontrovertibile. A noi come occidentali resta solo la scelta se rendere questo processo pacifico o traumatico; a noi come svizzeri resta la scelta se lasciarci fagocitare dal mondo euroatlantico responsabile sia dell’imperialismo sia della sua resistenza alla decolonizzazione oppure assicurare la nostra indipendenza e neutralità per provare ad agire come ponte tra i paesi emergenti e quella parte di mondo occidentale disposto a coesistere pacificamente con essi.

Alessandro Bellanca

Alessandro Bellanca, classe 1999, è iscritto al Partito comunista. Studia Storia e Lettere all’università di Friburgo.