“È una rivolta?” “No, Sire, è una rivoluzione.”

Il trionfo dell’individuo. Si può descrivere così in una frase il film Le Déluge (“Il diluvio”) di Gianluca Jodice presentato al festival del film di Locarno. Una pellicola estremamente curata nei costumi, nella recitazione, nella fotografia e mille altri aspetti tecnici, ma che presenta delle idiosincrasie politiche che vale la pena mettere in luce.

Le crépuscule des dieux

Il film vuole essere un’immagine dell’apocalisse (parole di Jodice), della fine di un’era, il crollo delle sue istituzioni, dei suoi dèi, per riprendere il titolo del primo capitolo del film, che aprono la strada ad un impavido mondo nuovo. C’erano molti altri modi di farlo, senza incentrarsi sulla famiglia reale (è una legittima scelta artistica), ma anche così il regista riesce senz’altro nel suo intento. Da una conversazione banale con Maria Antonietta, le roi très Chrétien (“il re Cristianissimo”) se ne esce dicendo che forse – nous sommes tous au royaume des morts – (“siamo tutti nel regno dei morti”). Ed è proprio quella di un limbo l’ambiance della pellicola; una lunga, angosciante attesa di un verdetto (o delle armate della coalizione) che sembra non arrivare mai. Ma già si sa che tutti coloro che stiamo guardando, alla fine del film, o comunque alla fine di quel capitolo di Storia, saranno morti, se non come individui, perlomeno come classe. Quella stessa classe che l’abate Sieyès (che usava il termine non-marxista di “ceto”) definiva “parassitaria”, in quanto pur non lavorando raccoglieva i frutti del lavoro di altri che lo facevano al suo posto. Ed infatti, oltre i grandi ideali di libertà, ricerca della felicità, uguaglianza (non economica! Quello lo chiederanno i comunisti) di fronte alla legge, diritto alla resistenza armata ad un governo che non persegue il bene comune, diritto alla sicurezza, la rivoluzione francese, cioè la rivoluzione della borghesia (oltre che di una piccola parte illuminata del clero e della nobiltà imprenditrice) contro le forze del feudalesimo, si compie e s’incardina su dei principi liberali fondamentali: il riconoscimento e la protezione della proprietà privata (definita “sacrosanta” ed inserita nella costituzione, come anche il principio del film di Jodice ci ricorda) e il diritto alla libera iniziativa economica privata in un mercato deregolamentato dai “lacci e lacciuoli” dello stato mercantilista (il principio della scuola classica del laissez-faire, laissez-passer, che, in un mondo in cui pressoché tutto era in mano a due ceti che facevano meno del 5% della popolazione di Francia, aveva anche un suo senso e una sua legittimità).

Individuo e collettivo

Insomma, la rivoluzione francese è il trionfo della borghesia, dell’individuo e dell’individualismo (pur con le sue accelerazioni e ripartenze nei decenni seguenti). Perché c’è dunque un’idiosincrasia con lo sfondo politico del film? È molto semplice: l’individuo, o per meglio dire, l’insieme d’individui, è quello della famiglia reale. Seguiamo la loro incarcerazione e i loro “patimenti” (che diventa difficile definire tali con la coscienza storica di cosa doveva perdurare più del 95% della popolazione francese) da vicino, quasi quotidianamente. Jodice ci offre un quadro molto umano, molto poco regale ed istituzionale di questi personaggi, affermando di aver voluto ricercare quella verità, quell’autenticità che compare sulla superficie una volta vicini alla fine: cadono tutte le maschere pirandelliane per lasciarci la testimonianza di uomini e donne che, svestiti dei loro abiti di broccato e disarmati della propria frusta, risultano piccoli, spaventati, fragili e, tutto sommato, piuttosto patetici. Qui sorge uno dei due problemi fondamentali del film. Il re, così come la regina, con la proclamazione della repubblica diventa un semplice cittadino, tale “Luigi Capeto”. Lontani anni luce sono ormai le grandi tesi di Jean Bodin, l’incontestabile potere assoluto e divino della grande monarchia d’Europa par excellence: la volontà del popolo trasmuta il potere di uno nel potere di molti (la Convention Nationale). Luigi, in una scena di catechismo rivoluzionario, dopo che gli viene comunicato il suo nuovo status di cittadino, ingenuamente e disperato, dice: – j’espère aussi que je serai jugé en tant que tel [citoyen] – (“Spero anche che sarò giudicato come tale [cittadino]”). Ma il giovane rivoluzionario che lo istruisce, con un po’ di pietà, lo delude: perché il vecchio re non è solo carne e sangue, ma il simbolo di secoli di tirannia e oppressione, un sacrificio necessario per la nascita di un nuovo mondo. – L’agneau de Dieu – (“L’agnello di Dio”). Il film dunque è consapevole che esiste un problema di fondo nel voler umanizzare come individuo una figura che semplice individuo non è, proprio in virtù del suo ruolo pubblico e della sua stessa rivendicazione ideologica di padre putativo e signore della nazione francese. In che modo allora si può provare una piena compassione per una figura come Luigi XVI o Maria Antonietta? Il film non pare volere o essere in grado di dare risposta. Scegliendo di non farsi politico (che non gl’impedisce di esserlo: l’apoliticità è un atto politico), fallisce. Sì, certo, con un film del genere non si può gioire delle durezze vissute in reclusione (un soggiorno molto migliore di un qualsiasi altro prigioniero francese) o della sorte fisica della famiglia reale come individui, ma lo stesso non vale per il loro epilogo come categoria storica. Perché il feudalesimo non si può salvare, né la sua monarchia e i suoi re.

Il film vuole umanizzare i reali di Francia, ma non concede lo stesso privilegio ai rivoluzionari.

Nous sommes l’humanité

Tanta umanizzazione quindi in questa pellicola, ma solo per alcuni. In effetti, accanto all’individualizzazione di coloro che sono il feudalesimo personificato, non vi è un altrettanto impegnato sforzo per umanizzare coloro che invece la rivoluzione la fanno, cioè la borghesia armata e il popolo francese au sens large. Quest’ultimo è presente in un’unica scena, nella quale reclama di verificare la prigionia del re e gli lascia la testa decapitata di un membro della servitù. – Approchez-vous, sire. N’ayez pas peur. Nous sommes l’humanité – (“Avvicinatevi, sire. Non abbiate paura. Noi siamo l’umanità”). Un’umanità che Jodice ci presenta in tutto il loro stato di miserabili: sporchi, violenti ed incontrollabili (plus jamais), ma senza mostrarci assolutamente nulla della loro vita, del perché siano ridotti così. La ragione è chiara come il sole a chiunque abbia potuto apprendere perlomeno le basi di ciò che fu la prima rivoluzione francese, la ragione è davanti agl’occhi di queste masse che occupano titubanti l’atrio del castello in cui fanno irruzione: il re; il re in quanto Luigi XVI e rappresentante dell’istituzione della monarchia feudale francese. Ma tutto questo non basta in un film che vuole elevare (io, da strutturalista, preferirei l’espressione “ridurre”) la questione monarchica ad una faccenda anche individuale, perché a questo punto, per non fare un’involontaria apologia di quel sistema e diventare l’unico redivivo légitimiste del XXI secolo, occorre dare umanità ed individualità almeno ad alcuni personaggi della parte rivoluzionaria, perché le ragioni della Storia sono dalla loro parte: il feudalesimo è stato giustamente spazzato via dal capitalismo, che certo ci ripugna, ma perché siamo in un contesto storico in cui tentiamo di passare ad uno stadio successivo migliore, il socialismo e poi il comunismo, non certo perché vorremmo tornare indietro. Da questo non si può prescindere, volenti e nolenti. E non bastano i timidi tentativi di dirci alcune delle difficoltà vissute da un singolo personaggio rivoluzionario (su schermo ve ne sono solo due che sono qualcosa di più di semplici comparse), che pure posseggono delle caratteristiche estendibili al resto del popolo francese. In primo luogo perché in un film le cose vanno mostrate, lo impone il formato del medium. Il che non significa che non si possa raccontare a parole anche nel cinema, ma bisogna prendere atto che queste parole saranno infinitamente meno forti se non sono rappresentate visivamente: raccontare una decapitazione non è come metterla a schermo. In secondo luogo perché, pochi secondi dopo la recriminazione dei patimenti del rivoluzionario a Maria Antonietta, questo le fa intendere molto chiaramente che intende violentarla. Alla fine l’ex regina, che viene mostrata sicura di sé e in controllo della situazione anche in un momento del genere, accetta di subire l’umiliazione e la violenza in cambio di un trattamento più dignitoso della propria famiglia. Insomma, non esattamente un prototipo di dignità umana ed integrità ideale per “umanizzare” la rivoluzione. Tale capitano della guardia si suiciderà qualche scena dopo (per la colpa, si suppone). Certo, non è che il popolo francese all’epoca fosse proprio l’epitome della raffinatezza, le buone maniere o la fotocopia dei proclami e i trattati illuminati dei grandi savants che la rivoluzione l’hanno guidata. Al contrario, questa loro violenza e, verrebbe da dire, quasi selvaticità, non è certo uno stato di natura, ma il diretto risultato delle condizioni sociali in cui versano a causa del tipo di sistema a cui debbono sottostare: quel loro stato di semi-subumanità non è altro che un attestato di fallimento del feudalesimo (come lo è del capitalismo oggi). Nous voilà: nous sommes l’humanité, hors de Versailles (“Eccoci qui: noi siamo l’umanità fuori da Versailles”). In questo può rientrare anche il rivoluzionario che usa violenza a Maria Antonietta. Un popolo abituato a subire violenza sarà molto più incline ad usarla senza particolari remore; se la tua vita è trattata come se non contasse nulla, sarà più facile comportarsi, anche inconsciamente magari, come se pure la vita altrui non valga granché. Un esempio analogo fra i molti, ma più vicino a noi, è quello della prima guerra mondiale e il suo effetto di “brutalizzazione” della società (specialmente dei soldati, ma dipende da paese a paese). In questo senso, cioè nella rappresentazione di una realtà di fatto del popolo francese, il film non sbaglia, ma non accompagna questa superficiale osservazione con alcuna concreta “spiegazione”, che in un film individualista si potrebbe mostrare sottilmente con, appunto, la storia individuale di alcune di queste persone. Ad uno spettatore poco preparato, tutto questo si riduce alla solita rappresentazione della Révolution nei film degli ultimi anni (anche se non ai livelli da lobotomia delle pellicole anglosassoni): la povera, colta e raffinata nobiltà contro la cattiva, barbara e sporca masnada popolare.

Douce France, chère monarchie de mon enfance

Tirando le somme, il film di Jodice mi è piaciuto: è una pellicola interessante, tecnicamente molto solida, avvincente sul piano della recitazione. È un’interessante e riuscita allegoria dell’apocalisse del feudalesimo, ma, e lo sottolineiamo con vigore, terribilmente nulla da un punto di vista politico. Il che, in un film sulla fine fisica e politica della famiglia reale di Francia, è un problema, che lo si volesse film politico o meno. Abbiamo fatto il giro completo: dalla rivendicazione della dignità d’individuo da parte del Terzo Stato per emanciparsi dalla tutela degli altri due (clero e nobiltà), ora s’impugna l’individualismo per romanticizzare proprio quella forza politica indifendibile che l’avrebbe (e l’ha, di fatto, a più riprese) schiacciato per salvaguardare il consorzio d’interessi dei gruppi parassitari che reggevano lo stato prima della borghesia. Non è nemmeno un segreto, a giudicare dalle dichiarazioni di vari esponenti dell’imprenditoria internazionale e dei grandi monopoli de facto, spuntate sui giornali negli ultimi anni, che una parte della borghesia non disdegnerebbe affatto un nuovo feudalesimo che formalizzi con incenso e mirra il loro strapotere. Io non so se, e a priori non ne dubito affatto, Jodice sia in assoluta buona fede e se davvero abbia solo cercato un nuovo modo di raccontare l’epilogo di Luigi XVI e Maria Antonietta; al contempo credo anche che il dato politico che rimane, alla fine, e che conta di più proprio per via dell’argomento storico, sia quanto detto sopra. Il re è morto, poverino; il re è morto, viva la rivoluzione!

Alessandro Bellanca

Alessandro Bellanca, classe 1999, è iscritto al Partito comunista. Studia Storia e Lettere all’università di Friburgo.