Mentre il teatro delle elezioni statunitensi non cessa di offrire i bis al pubblico mondiale, che segue attentamente lo spettacolo più per timore delle sue conseguenze infauste che per amore delle vicissitudini politiche dell’Impero, la stampa occidentale sceglie e sprona i propri campioni. Il ritiro dalla corsa alle elezioni di Biden non solo ha posto i giornalisti di fronte all’oggettività dei deficit cognitivi del presidente, che pure erano stati negati a spada tratta per anni e declassati ad accuse decontestualizzate di semplici detrattori, ma ne ha sollecitato una nuova presa di posizione. Zoppicato via dal palco l’eroe dell’estrema destra paramilitare ucraina e del colonialismo genocida israeliano, ecco che a montare su di esso è, benedetta proprio dal senile uscente, la vicepresidente Kamala Harris. Figura piuttosto anonima dell’amministrazione Biden, messa da parte il più possibile nelle grandi apparizioni pubbliche per via delle sue atroci capacità retoriche, è riuscita in fretta a raccogliere il sostegno del proprio partito e dei suoi donatori (tra cui l’immancabile AIPAC, una delle più potenti lobby sioniste negli Stati Uniti). A correrle dietro strombazzandone la venuta sono diversi giornali occidentali, che ne tessono le lodi più varie e, sopra ad ogni cosa, ne decantano il pedigree di donna afroamericana e di origini asiatiche. E a leggere certe arringhe, pare proprio che basti quest’ultimo, una specie di patentino di legittimità liberale, a sancire il presunto ethos “progressista” della candidata alla presidenza. I giornalisti ignorano (e sarebbe negligenza) o dissimulano (e sarebbe tradimento) il fatto che la Harris gli riderebbe in faccia a leggere simili associazioni con la sua persona.
Il culto della personalità dei leader statunitensi
A scodellare assieme agli altri questa surreale fanfara di bulgakoviana memoria ritroviamo anche la Radiotelevisione Svizzera. Che la RSI incensi i paesi allineati con gli Stati Uniti o l’Unione Europea non è cosa nuova e si tratta semmai di una tradizione ereditata dalla Guerra fredda. Ciò che si percepisce come diverso è tuttavia una fin troppo palese, quasi grottesca, necessità di adeguare la propria (dis)informazione a quella del campo euroatlantico, a costo di perpetrare le più ingenue e verificabili falsità; a costo di svendere il proprio lavoro e la propria sovranità per fare contento qualcuno a Washington o Bruxelles. Il caso di Kamala Harris è piuttosto emblematico: non è il primo, solo il più recente (un altro notevole era quello di Alexei Navalny, vero e proprio Falso Demetrio). Veniamo però ai fatti. Per semplificarci la vita e non scrivere un mémoire intero, prendiamo tre qualità appuntate alla Harris dai nostri ricopiatori di notizie della radiotelevisione svizzera: un’abile oratrice in grado di arringare le masse; una progressista paladina dei diritti delle minoranze, degli afroamericani e delle donne; una persona “col gusto per la giustizia sociale”, dunque integra e dai saldi principi. Queste affermazioni, che vedremo rivelarsi false, sono in ordine crescente di gravità. Tra le informazioni vere, ma totalmente insignificanti, elencate dalla RSI sulla Harris, troviamo: l’etimologia asiatica del suo nome, l’impegno nel movimento per i diritti civili dei suoi genitori (farà strano, ma non si trasmette per DNA), le sue ricette di cucina (non sto scherzando) e il suo modo di ridere “forte e contagioso”. Per leccarle la totalità della suola delle scarpe, ci mancava solo si mettessero a strillare che ogni giorno pianta un albero per salvare il pianeta e il weekend salva cuccioli di foca e trovatelli (e questi sono gli stessi che poi parlano del culto della personalità di Kim Jong-un e Vladimir Putin: del resto, il liberale vive di culti della personalità).
Slogan vacui e incapacità dialettica
Affermare che Kamala Harris e l’arte oratoria non vadano d’accordo sarebbe un eufemismo, a giudicare dalle sue uscite negli ultimi anni. Kamala Harris “is a poor communicator”, ci dice senza scomporsi e con un certo tatto un giornalista del New York Times, riportando le parole di una collega del The Atlantic. “The evidence” continua, “is abundant”, “she sometimes seemed unable to describe her own policies” (“le prove sono abbondanti, a volte è sembrata incapace di descrivere le sue stesse decisioni politiche”), accennando anche ai numeri estremamente deboli delle sue preferenze. Il giornalista ci ricorda inoltre come alcune delle sue uscite incerte e confuse, definite comunemente nell’espressione inglese di “word salad” (insalata di parole), siano state riprese in più occasioni dai media conservatori per metterla in ridicolo (per esempio qui e qui). Tuttavia non c’è, di fatto, scusa che regga, perché se è vero che media del calibro (si fa per dire) di Fox News siano soliti esagerare i difetti degli “avversari” democratici (anche qui si fa per dire*), sono diversi i tabloid in cui si possono ritrovare dei veri e propri montaggi dei vari discorsi incoerenti tenuti dalla Harris (per esempio qui e qui), tra cui anche alcuni di posizionamento democratico (qui). Tra le citazioni più famose (e “memate”) della vicepresidente vi sono quella sul clima al summit dell’ASEAN (discorso completo qui), quella sul “significato del passare del tempo” e il celebre “it’s time for us to do what we have been doing, and that time is every day” (“è il momento di fare ciò che abbiamo fatto, e questo momento è ogni giorno”, qualsiasi cosa significhi questa frase). Si apprende perciò con interesse, ma non troppo stupore, dell’ecatombe di dimissioni nello staff della comunicazione della Harris. Per dirla con le parole del The Orange County Register, “La Harris è sicuramente una persona di successo. Ma i suoi numeri di approvazione riflettono le sue performance, un po’ del momento [storico], e non molto di più. La Casa Bianca dovrebbe farle un favore e ridurre la sua esposizione al pubblico.”. Un consiglio che è stato seguito dalla presidenza Biden.
Una procuratrice dedita all’accanimento giudiziario
“Va bene”, mi si potrà dire, “la Harris non sarà un Cicerone o un Robespierre, ma la comunicazione non è tutto; alla fine, contano i fatti”. E allora vediamoli un po’, questi fatti. Come ne esce l’immagine della vicepresidente da una verifica della sua vocazione per la difesa dei diritti delle minoranze, degli afroamericani e delle donne? Allo stesso modo in cui ne escono gli Stati Uniti della difesa dei “diritti umani” dopo un tour di Abu Ghraib. Potrebbe sembrare sconvolgente al giornalista liberale, – che invitiamo ad allacciare la cintura di sicurezza e stringersi al sedile – , ma l’origine etnica di una persona in un gruppo di minoranza (in questo caso, una donna di discendenza asiatica e afroamericana) non corrisponde matematicamente ad un indirizzamento politico progressista: Kamala Harris ne è un esempio lampante. Sotto la sua giurisdizione di procuratore generale della California, roccaforte democratica per eccellenza, la città di San Francisco ha visto passare il tasso d’incarcerazione per crimini dal 52 al 67% in tre anni. Di tutti gl’internati della città, il 56% è di colore, così come il 40% di tutti gli arrestati, su una popolazione il cui totale di persone di colore è solo del 5,8%. Per lo stato della California, si è opposta per ben tre volte alla riforma della “three strikes law”, una legge che impone sentenze a vita per reati minori come il possesso di droga, il taccheggio e la contraffazione. Tale legge, inoltre, colpisce circa 12 volte di più le persone di colore rispetto ai bianchi e rappresenta una violazione dei diritti umani. Il trend non muta con il caso Kevin Cooper, nel quale un sospettato di colore era accusato di quadruplice omicidio. Nel momento in cui le prove raccolte dal team di avvocati della difesa sembrò puntare nella direzione di un “framing” (addossare la colpa) da parte del dipartimento della polizia di San Bernardino per motivi razziali, la Harris rifiutò di effettuare il test del DNA, impedendo l’uscita del sospettato dal braccio della morte. Nemmeno l’intervento dell’Inter-American Commission on Human Rights per una revisione del caso, di cui venne attestata la cattiva gestione e la conseguente violazione dei diritti costituzionali del sospettato, fece cambiare d’avviso alla procuratrice generale.
Almeno a voce supporterà però i diritti degli afroamericani, giusto? Non proprio. In un certo senso, tutti siamo stati testimoni dell’effetto che ebbe nel 2016 l’inginocchiarsi del giocatore di football Colin Kaepernick durante l’inno americano prepartita, come segno di protesta per la situazione medievale in cui versano ancora gli afroamericani rispetto alla controparte bianca. Quattro anni dopo, Harris parla di una reazione popolare, confluita anche nel movimento Black Lives Matter, non genuina ma manipolata ed eccitata dalla Russia, la quale attraverso i suoi bot avrebbe permesso di gonfiare esageratamente la questione. Infatti, stanno così bene gli afroamericani negli USA: “ha stato Putin!”, per forza.
Razzismo e omotransfobia
Per quanto riguarda altre minoranze, come quelle di genere, religiose o i nativi americani, anche qui la Harris non cessa di dare sfoggio di “progressismo”. Nel 2015 blocca l’accesso a dei trattamenti per la transazione di genere ad una prigioniera transgender. Questo genere di condotta mette in pericolo le detenute transessuali, a cui non è permesso dunque il trasferimento dalle prigioni maschili. Ciò ha causato indirettamente lo stupro e la tortura di almeno una di esse da parte di alcuni uomini incarcerati (uno studio sulle prigioni californiane rivela che le carcerate transessuali in strutture di detenzione maschili rischiano di subire molestie sessuali circa 13 volte in più rispetto ad altri prigionieri). Nel 2016, copre le spalle di 14 agenti di polizia coinvolti in commenti e messaggi “razzisti ed omofobi”. Nel 2011 difende un caso di non assunzione per discriminazione religiosa (ad un uomo Sikh viene rifiutato il lavoro come guardia carceraria dopo essersi rifiutato di rasarsi la barba). Nella disputa tra le tribù indiane del Colorado e l’inquilino Roger French della West Bank Homeowners Association, nella quale quest’ultimo doveva essere espulso dal territorio della riserva dopo avervi risieduto dal 1993 senza pagare l’affitto, Harris sostenne la difesa di French, che tentava di sottrarsi alla responsabilità cercando di contestare l’effettiva proprietà delle tribù del Colorado su alcuni appezzamenti di terra, incluso quello su cui risiedeva (cosa sarà mai un pezzo di terra in meno, per dei “subumani” già chiusi in una riserva, no?). Il caso è chiuso nel 2017 quando l’uomo, novantenne, muore prima che sia possibile concludere il processo.
La “femminista” Harris, un poco antiabortista
Almeno le donne si salvano? Di sicuro non le impiegate del Dipartimento di Giustizia della California. Una serie di casi di molestie sessuali di varia risma, avvenute dal 2011 al 2017, ovvero durante la regia Harris come procuratore generale, è portata alla luce dal The Times e si conclude con un risarcimento totale di circa 1,1 milioni di dollari per le vittime. Harris disse di non essere a conoscenza di simili comportamenti nemmeno da parte del suo aiutante superiore Larry Wallace. Vabbè, sarà stata distratta, per sei anni di fila, ma poi ha risarcito le vittime. Per il resto sostiene l’uguaglianza di genere, come il diritto all’aborto, no? Lo ripetono a macchinetta tutti i giornali, deve essere vero! No. Harris vota in due diverse occasioni per bloccare l’allocazione di fondi federali per garantire il diritto all’aborto.
Pecunia non olet
Via via, cari liberali, non disperate. Tutto questo vorrà forse dire che Harris non sostiene le minoranze? Certo che no, le sostiene eccome! Ecco, forse non le minoranze di cui i giornali si riempiono la bocca, usandole come arma, ma certamente alcune minoranze. La classe padronale è di certo una minoranza rispetto all’insieme della popolazione. Nel 2014, i giudici federali della California ordinano di espandere il programma di rilascio di prigionieri colpevoli di crimini minori (e abbiamo visto sopra quanti ve ne siano) al fine di ridurre il sovraffollamento carcerario (gli Stati Uniti hanno il più alto tasso d’incarcerazione al mondo). Harris si oppose, dichiarando che “se costrette a rilasciare anticipatamente questi detenuti, le carceri perderebbero un importante bacino di lavoro”. E di che tipo di manodopera si parla? “La maggior parte di questi prigionieri lavora ora come custodi, inservienti e nelle cucine del carcere, con salari che vanno dagli 8 ai 37 centesimi all’ora.”. Cogliamo l’occasione per ricordare che negli Stati Uniti è illegale solo un tipo di schiavitù (ossia il lavoro forzato) e non altre forme più sottili, come questo tipo d’impiego della manodopera carceraria. Mentre a parole nel 2010 Harris affermava che gli 11 miliardi di dollari annui spesi dalla California solo per il sistema carcerario erano sprecati, alludendo a delle necessità di riforma, nel 2013 non fa assolutamente nulla per impedire che 730 milioni di dollari vengano spesi per lo spostamento di una parte della popolazione carceraria in prigioni private (sì, negli USA esistono; e sì, una prigione privata ha tutto l’interesse che i detenuti siano recidivi e non vengano reinseriti nella società). Nel 2018 sostiene un disegno di legge per permettere ai procuratori dello stato di sequestrare i beni di potenziali criminali prima ancora della formulazione ufficiale dei capi d’accusa. Un vero peccato che ad essere soggetti ad una simile pratica non sarebbero solo le associazioni criminali, ma anche i poveracci da three strikes law. Harris si è sempre rifiutata d’investigare la grande compagnia californiana Pacific Gas & Electric a seguito della gigantesca esplosione di un suo oleodotto nel 2011, la quale “ha ucciso otto persone, ne ha ferite 58 e ha incenerito un quartiere di San Francisco, nel sobborgo di San Bruno.”. Nel 2013, la League of United Latin American Citizens scrive ad Harris affinché si apra un caso contro Herbalife per sfruttamento e frode, dal momento che si tratta di quel genere di “multi-level marketing companies” che sono “essenzialmente versioni legali del tradizionale schema a piramide”. Nessun caso è mai stato aperto da Harris. Le malelingue vorrebbero che questo sia connesso alle donazioni ricevute proprio da quell’azienda. Un altro caso è quello che riguarda Steve Mnuchin, ex-segretario del tesoro sotto la presidenza Trump. Davanti alle prove a disposizione e le pressioni per portarlo a giudizio per le pratiche bancarie illegali che provocarono la rovina di migliaia di famiglie, Harris rifiutò di perseguirlo. Inoltre, l’erede di Biden è anche l’unica candidata democratica delle vecchie presidenziali ad aver accettato donazioni per la campagna elettorale proprio da Mnuchin. Ma il meglio arriva adesso. Tra il 2011 e il 2014, Harris accetta migliaia di dollari in donazioni da parte di Donald ed Ivanka Trump nella sua corsa per diventare procuratore generale della California. Stiamo parlando della stessa Kamala Harris che ora si pone a testa alta come alternativa “moderata” contro l’“estremismo” dell’altro candidato alle presidenziali, definito, tra le altre cose, “razzista”. Tuttavia, si sa: pecunia non olet (per altre donazioni ricevute da grandi magnati, vedere qui). Chiudiamo qui il capitolo sulle minoranze: un urrà per Harris, eroe del capitale!
Integerrimi principi, come il saluto della pena di morte
Va bene, Harris non è una progressista, la sua agenda coincide nei fatti con quella di un neocon (conservatorismo sociale e liberismo economico), ma, perlomeno, ha sempre agito correttamente; non importa se i suoi veri ideali non coincidono con un’agenda di sinistra (che esiste solo in partiti minoritari come il Party for Socialism and Liberation, non nei due colossi blu e rossi), ma che si sia comportata in modo giusto all’interno del compasso morale che la definisce ideologicamente. Resta una brava persona, giusto? Beh, caro lettore, avrai capito come funziona il nostro numero a questo punto dell’articolo. Tornando alla gestione penitenziaria, nel 2019 la Harris scherza e si mette a ridere raccontando di alcuni casi sulla sua decisione di perseguire penalmente (leggi: “buttare al gabbio”) i genitori i cui figli hanno accumulato ore di assenza scolastica arbitrarie (qui alcune storie delle madri che ha fatto incarcerare: loro hanno riso poco). Nel corso della sua carica come procuratore generale, scarta un’azione legale intentata dai carcerati californiani contro l’uso statale della pratica dell’isolamento, affermando che “nelle carceri californiane non c’è ‘detenzione in isolamento’”. All’epoca erano circa 6400 le vittime di questa pratica, che è paragonabile ad una forma di tortura (vedi anche qui). Nel 2015, si oppone ad una legislazione che permetterebbe investigazioni indipendenti nei casi di sparatorie fatali con coinvolgimento della polizia. Sulla falsariga di questo caso, Harris è contraria all’implementazione statale obbligatoria di videocamere sugli agenti di polizia in servizio, preferendo lasciare la scelta ai dipartimenti locali: non male per la campionessa delle minoranze afroamericane! Si è anche impegnata ad impugnare le compensazioni economiche per tutte le persone innocenti incarcerate ingiustamente dal suo ufficio. Perché il corpo del poliziotto è sacro, come quello dei re taumaturghi consacrati a Reims; se sbaglia, resta pur sempre scelto da Dio: chiedere delle riparazioni, c’est de la lèse-majesté! E a proposito di corpi sacri, l’ufficio di Kamala Harris rifiutò di collaborare con le vittime degli abusi sessuali perpetrati da individui della Chiesa cattolica e non intentò nuove misure giudiziarie nei loro confronti. Nel 2014, l’erede dell’amministrazione Biden impugna in appello una mera definizione tecnica contro un giudice federale che aveva designato la pena di morte come incostituzionale. La vittoria permette il lieto prosieguo della pena capitale. Potremmo aggiungere che Harris è nel portafoglio di AIPAC oggi come ieri, ma è piuttosto chiaro che per il giornalismo occidentale i palestinesi non sono esseri umani (non come gli ucraini di sicuro) e che quindi contribuire a calpestare i loro diritti non è un indice di disumanità. Lo stesso si potrebbe dire per gl’immigrati, che Harris terrebbe volentieri dall’altra parte del muro (ma non è Trump, se lo dice lei niente articoloni di denuncia). Ci si ricorderà forse del “don’t come here” (“non venite qui”)che questa grande icona progressista rivolse agli esodati guatemaltechi nel 2021 (non nel neolitico: tre anni fa). I suoi interlocutori, ne avessero avuto il potere, magari avrebbero risposto che l’avrebbero fatto volentieri, se gli Stati Uniti la smettessero di esportare guerra e povertà nel resto del mondo.
Giornalisti o amanuensi?
Abbiamo detto molto su Kamala Harris e ancora si sente di non aver detto abbastanza (per i coraggiosi, qui avete una lista quasi onnicomprensiva delle res gestae Kamalae). Come riassumere questa figura politica? Ci sarebbero molte opzioni, anche se forse la semplicità paga di più in un caso del genere: Kamala Harris, il poliziotto americano modello (poliziotto nel senso della categoria, Harris come singola la decliniamo al femminile “poliziotta”, dal momento che è una che ci tiene alle questioni di genere). Tante opzioni, appunto, da cui una proposta personale, ma di sicuro nessuno dei titoli annunciati in pompa magna dai media occidentali e, ahinoi, dalla nostra stampa sempre meno nazionale. Viene da chiedersi quale sia il criterio di valutazione politica impiegato dai media in generale, ma specialmente dalla nostra RSI: basta semplicemente spergiurare di sostenere i diritti delle donne? È sufficiente giocare all’ecologismo promuovendo i pannelli solari (ma per impiegarli nell’esercito) per diventare una nuova icona verde? È necessario nascere dalla combinazione genetica giusta per essere dichiarati da un qualche comitato disciplinare come automaticamente progressisti? Cari “giornalisti” della RSI, sapete cosa significa fare un minimo d’indagine su una figura politica per darne una descrizione critica (che non vuol dire per forza negativa, ma, appunto, partorita con spirito critico, il meno soggettiva possibile) e magari verificare un pochettino i fatti rispetto a ciò di cui ci si riempie la bocca? Perché devo fare io il vostro lavoro (che comunque non fate pro gratia, visto che paghiamo il canone)? Le opzioni sembrano essere tre: o non c’è uno straccio di metodologia, e i nostri eroi sono effettivamente dei ricopiatori di notizie, amanuensi del nuovo millennio; o devono seguire una linea editoriale che evidentemente non coincide col bene pubblico, cioè il diritto ad essere informati correttamente; oppure entrambe le cose. E mentre stiamo ad arrovellarci, domandandoci come chiedere conto di questa patetica professione di fede verso un particolare candidato alla presidenza di una potenza straniera (e qualcuno lo farà, quando si andrà a referendum sul canone), il café-chantant continua, sovrastando le urla e i pianti di chi è vittima con le risa e il giubilo di un Occidente che, perduti da tempo i propri eroi, come un novello Pigmalione li plasma da sé, dimenticandone la natura artefatta ed innamorandosene perdutamente. Evviva Harris, Giovanna d’Arco, donna della provvidenza!
* “Anche gli Stati Uniti sono uno stato a partito unico ma, con la tipica stravaganza americana, ne hanno due” – Julius Nyerere.