2024: anno di “super elezioni”. Ha ancora senso votare nell’Occidente collettivo?

Quest’anno si recheranno alle urne il 51% della popolazione mondiale (4,1 miliardi) e perciò il 2024 è stato soprannominato un “anno di super elezioni” o addirittura il più grande anno elettorale della storia.

A ciò contribuiscono le elezioni in paesi popolosi come Russia, Messico, India, Indonesia, Senegal e Stati Uniti, tra gli altri, che si tengono nel corso di quest’anno.

Il mondo sta vivendo profondi e radicali cambiamenti. Davanti ai nostri occhi sta prendendo forma un nuovo ordine mondiale multipolare, più giusto, che riflette la grande varietà delle culture e delle civiltà del mondo. I contorni del futuro nascono dalla lotta. La Maggioranza mondiale, che rappresenta circa l’80% della popolazione del pianeta, si schiera a favore di una distribuzione più equa dei beni globali, del rispetto della molteplicità delle nostre civiltà e della conseguente democratizzazione della vita internazionale. Dall’altra parte, un ristretto gruppo di Paesi occidentali guidato dagli Stati Uniti punta, con metodi neocoloniali, a frenare il corso naturale degli eventi e a mantenere il suo sempre più debole dominio. Sorge spontaneamente la domanda: ha ancora senso votare nell’Occidente collettivo?

Per provare a rispondere a questa domanda, proponiamo di seguito un articolo del regista di origini messicane Fernando Buen Abad Domínguez. Laureato in filosofia politica, membro del Movimento internazionale dei documentaristi, fa parte della Rete degli intellettuali e artisti in difesa dell’umanità, organizzazione anti-imperialista fondata nel 2004 per volontà di Fidel Castro e Ugo Chavez.

Introduzione, traduzione e adattamento: G. Federico Jauch.

Un seggio elettorale durante le elezioni presidenziali russe (15-17 marzo 2024).

Semiotica del voto. Qualità e quantità nella volontà elettorale

di Fernando Buen Abad Domínguez

Nelle votazioni, che sono documenti storici, alberga una storia complessa, molto disomogenea e molto poco lineare. Pur con tutte le sue imperfezioni, la “democrazia” che conosciamo, finora, sembra ancora meritare la relativa fiducia degli elettori e votare sembra ancora avere senso. È ancora un modo ufficializzato di esprimere la diversità degli immaginari sociali per stabilire forme di convivenza. Secondo il sito web chequeado.com, il 2024 sarà un “super anno elettorale”. Circa 100 Paesi terranno le elezioni e in 50 di essi si voterà per eleggere i presidenti, secondo i dati ufficiali degli organi elettorali della Fondazione internazionale per i sistemi elettorali (IFES) e della società di consulenza Anchor Change. Si tratta di un record storico, ma cosa significa?

A causa della diversità delle loro provenienze, i voti sono nodi narrativi preceduti da conflitti molto diversi. Da ogni voto emerge una storia particolare e una storia generale che, consapevolmente o meno, sintetizza le virtù o le calamità del contesto che li ha generati. I voti, tutti, una volta riuniti nell’urna e individuati nelle preferenze, sono una cruda enciclopedia della civiltà che, anche nei luoghi in cui è obbligatoria, dà un riflesso sconvolgente del panorama politico delle volontà che li incubano e dell’enorme elenco di carenze sociali necessarie per una buona vita collettiva su tutte le scale. Ma è sempre un’enciclopedia parziale. Riflette una parte della volontà politica, ma mai la sua totalità. E negli interstizi si nascondono parimenti molte manipolazioni.

Non tutte le delusioni, non tutte le frustrazioni, non tutti gli agguati che i nostri popoli hanno subito in nome della democrazia sono riusciti a distruggere la speranza di intervenire nella storia votando la volontà delle maggioranze. Nonostante le irregolarità, le inadeguatezze e le frodi. Nonostante i travisamenti, le manipolazioni e i tradimenti. Così almeno appare.

Le votazioni raccontano una storia di conoscenza e ignoranza, tra tensioni e interessi che sono afflitti da una varietà di sfumature di colore. Paradossalmente, lo scenario della volontà democratica del popolo è oggi quello di un grande discredito globale sul ruolo dei partiti politici più noti, e tuttavia la soluzione frontista e movimentista ha assunto un posto rilevante. Il peso delle singole personalità di alcuni/e leader (la loro fama e il loro carisma) ha guadagnato terreno e sembra predominare una tendenza ideologica centrista o di centro-destra. Gli elettori si aspettano ancora che le elezioni producano governi onesti o che almeno non rubino, che facciano ciò che promettono e non approfittino della fiducia della maggioranza per i vantaggi commerciali di una minoranza che lavora all’oscuro. La sinistra farebbe bene a prenderne sinceramente atto. Non è chiedere troppo.

Le ideologie, le dottrine o i programmi delle organizzazioni sono stati messi in secondo piano e alcuni servono solo come riferimenti alla “buona volontà” o alla filantropia. Di solito, nelle campagne, si mostra poco o nulla dei conflitti storici centrali, del dibattito capitale-lavoro e della lotta di classe, a seconda dei casi, e quando appaiono, mostrano segni di maquillage o di cedevolezza adatti alla congiuntura piuttosto che alle necessità politiche oggettive. Più vistosi sono i giochi di prestigio dell’industria della propaganda e gli equilibrismi demagogici per spacciare per adatto ciò che in realtà avrebbe meritato il ripudio. All’apice dello spettacolo mediatico elettorale ci sono gli istrioni della scuola di Goebbels, che gesticolano con esagerazioni formali per nascondere la loro mediocrità intellettuale. E con questo alcuni vincono “democraticamente” le elezioni. Esistono prove molto dolorose e vergognose di tutto ciò.

A volte “democrazia” fa rima con “tirannia”.

All’idea che la democrazia debba esprimere la forza informata delle maggioranze, che si organizzano per risolvere i problemi comuni e garantire il miglior uso delle forze produttive e creative, si è contrapposta una versione circense dell’applausometro irresponsabile che, senza comprendere cause, problemi e soluzioni, sceglie, vota e poi ignora le conseguenze storiche del voto, spesso inconsapevole. Regna l’idea che democrazia significhi andare a votare un certo giorno per un certo candidato figlio della fama. Il carattere storico del voto, il suo peso documentale e la sua espressione politica hanno subito le conseguenze di una certa logica di spettacolarizzazione. Una logica molto pericolosa ma molto redditizia.

Questa complessità narrativa del voto richiede, per la sua elaborazione e la sua comprensione, meticolosi compiti di decodifica che occupano ben poco dell’attenzione delle organizzazioni che convocano i votanti. Ma è una complessità che richiede un’attenzione urgente, per quanto arduo possa essere. Ogni voto ci racconta una parte della vita che lo anima, con i suoi sogni, le sue frustrazioni, le sue speranze e le sue pretese. E nonostante nella grafica della maggior parte delle schede elettorali i protagonisti non siano le persone o le loro grida più profonde, nonostante siano privilegiati i volti o gli emblemi di persone e partiti… nonostante la ricchezza storica sinteticamente documentata nei voti non sia vista con il suo splendore e i suoi dilemmi, la disputa per il significato è lì, la lotta quotidiana, il battito del cuore del presente e del futuro, messi in lotta per esprimersi ed esprimere maggioranze e minoranze.

Questo sarebbe un motivo sufficiente per agire con un maggiore rispetto per i processi elettorali, una maggiore tutela e protezione dei voti, uno per uno, e una maggiore responsabilità collettiva nell’attenzione e nella comprensione dell’importanza del voto a breve, medio e lungo termine. Meno giochetti, abusi e riduzionismi. Meno protervia e demagogia. Più passione democratica partecipativa. Il voto ha molto da dire ma raramente viene ascoltato. Soprattutto quando ci sono le elezioni. Perché non siano solo una narrazione senza tono nelle condizioni attuali.

Testo originale: Cubaperiodistas