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Libia a rischio guerra civile: socialismo o capitalismo?

Il 19 febbraio, commando dell’esercito libico hanno attaccato la tendopoli dei manifestanti di Bengasi e al-Beida, nell’est del paese, usando armi da fuoco e gas lacrimogeni. Le dimostrazioni si svolgono soprattutto nella Cirenaica, la regione orientale della Jamahiriya Libica, di cui appunto Bengasi è il capoluogo. Il giorno prima i manifestanti hanno assaltato il carcere della città e liberato i prigionieri, bruciato una stazione radio e distrutto diverse questure. Dopo di che sono intervenute delle unità corazzate dell’esercito. Le manifestazioni antigovernative in Libia sarebbero state innescate soprattutto dai moti in Tunisia e in Egitto. Ma sebbene organizzazioni dubbie come HRW parlino di almeno 80 morti (ma solo essa è la fonte di tale notizia) e di lotta per la diffusione della ‘democrazia di stampo occidentale‘, come affermano appunto HRW o il gruppo di ‘dissidenti’ di stanza a Londra (la ‘Conferenza nazionale dell’opposizione libica’ che agisce solo tramite facebook), la natura dello scontro cui si assiste oggi in Libia, ha origini e motivazioni ben diverse da quelle sì prontamente diffuse dai media occidentali e nostrani.

L’antefatto

Già esattamente 5 anni fa, il 17 Febbraio, a Bengasi una folla di dimostranti aveva assalito il consolato italiano. Sebbene convocata dagli organi democratici popolari, cioè dai Comitati Rivoluzionari, la manifestazione esprimeva i sentimenti prevalenti presso la popolazione libica. La giornata della manifestazione ebbe un tragico bilancio: 11 martiri e decine di feriti, colpiti dalla polizia che era stata posta a guardia dell’ufficio consolare. (Tra l’altro una delle tre rappresentanze diplomatiche presenti a Bengasi). Apparentemente, la causa scatenante della manifestazione e dell’assalto al consolato italiano, sarebbe stata la sceneggiata televisiva del ministro Calderoli, che, in una trasmissione della RAI, ha esibito una maglietta con stampate sopra le ormai famigerate vignette anti-islamiche. In realtà, il fattore scatenante della manifestazione popolare e la reazione spropositata della polizia, hanno radici ben diverse e assai profonde.

Progressivo abbandono del socialismo?

La Libia oggi attraversa un momento assai delicato, una fase d’inserimento nel mercato occidentale. Un processo che richiede una nuova linea di azione di carattere generale. Quindi si impongono dei quesiti determinanti: Quale politica economica intraprendere? Quale politica diplomatica adottare? Che atteggiamento avere verso il flusso migratorio, che porta milioni di disperati africani a lasciare le loro terre devastate, per approdare nella ‘felice’ illusione occidentale? Cosa fare verso i movimenti e i sommovimenti della società libica? Che politica sociale si prevede di intraprendere? Che ruolo, domanda cruciale, devono avere il popolo, i militanti e i Comitati Rivoluzionari nel processo, inevitabile, di trasformazione della Libia? Il fatto che il governo avesse licenziato i responsabili della strage e proclamato martiri le vittime della repressione armata, fu una dimostrazione che il processo di ‘riforma’, portato avanti dal gruppo riunito attorno al primo ministro Alì al-Mahmudi al-Baghdadi, già allora incominciava ad incontrare crescente opposizione e contestazione.

Il governo libico, le autorità costituite, o almeno frazioni di esse, hanno deciso di abbracciare le ricette economiche di stampo neoliberista: apertura ai capitali stranieri, investimenti finanziari, ‘liberalizzazione’ dei diritti sociali, privatizzazioni di enti pubblici, di diritti pubblici, ecc. ecc. Quest’ultimo tema è assai importante. Tutto ciò deciderà cosa la Libia sarà in futuro. L’adozione del modello neoliberista in determinati campi, non inficia il timore, da parte delle masse popolari libiche, che tale ‘liberalizzazione’ investa tutti gli ambiti della vita sociale, culturale, economica, lavorativa e politica della Libia. Le scelte del governo tripolino, del premier al-Baghdadi, non inducono a ritenere diversamente. Tra l’altro il nesso tra fazioni ‘riformiste’ e governi occidentali, italiani, francesi, tedeschi, inglesi e perfino statunitensi e l’evidente connessione tra riforme interne e politica diplomatica, sempre più vicina agli interessi occidentali, non possono che alimentare timori e sospetti tra la popolazione e la base dei militanti; donne e uomini cresciuti sull’esempio di Umar al-Muqtar e della sua lotta anticoloniale e anti-italiana.

Conflitto fra linea rossa e linea nera

Il processo di limitazione delle conquiste della rivoluzione del settembre 1969, arginando l’attività dei Comitati Rivoluzionari, l’avvio del processo di liberalizzazione e di privatizzazione, non poteva, allora, non può, oggi, che suscitare delle reazioni, anche violente, come nel caso di Bengasi, dove a quanto pare due militanti identificati con l’ala filo-occidentale, sono stati linciati dalla folla. Non dimentichiamo che recentemente l’autorità del premier al-Baghdadi s’è scontrata con la figura del primogenito di Muammar al-Gheddafi, Saif ul-Islam al-Gheddafi, cui è stata chiusa d’autorità al-Ghad, la società editoriale che controlla la emittente TV al-Mutawassat (il Mediterraneo), un’agenzia di stampa, Lybia Press, e varie testate, tra cui il giornale Oea e il quotidiano Quryna, di cui è proprietario Saif ul-Islam. Il vice amministratore di al-Ghad, Fawzi Ben-Tamer, sei redattori di Lybia Press e una dozzina di giornalisti tunisini ed egiziani sarebbero stati arrestati. La causa ufficiale sembrano esser state le critiche rivolte ad al-Baghdadi: “In Libia non esiste più uno stato”, avrebbe detto lo stesso Saif ul-Islam.

In questo scontro rientra la linea di politica interna recentemente adottata dal governo di Tripoli: infatti, qualche mese prima due intellettuali e docenti universitari libici di origine berbera, i fratelli Madghis e Mazigh Buzakhar, sono stati imprigionati il 16 dicembre 2010 con l’accusa di spionaggio per conto d’Israele; anche se fonti italiane, affermano che sarebbero stati arrestati per aver criticato la Libia parlando con Simone Mauri, un giovane ricercatore che lavora al SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra e che ha partecipato a un convegno sulla cultura berbera. Mauri doveva studiare il berbero di Augila, un’oasi presso Giarabub, ma è stato arrestato anch’egli all’aeroporto di Tripoli. Inoltre, altri due intellettuali berberi marocchini dell’IRCAM (Istituto Reale di Cultura Amazigh) Mahfoud Asmahri e Hassan Ramou, sarebbero stati arrestati in Libia, il 21 dicembre 2010, dopo un convegno in Tunisia e un passaggio in Libia. Ma non esistono conferme ufficiali di quest’ultimo fatto. Nel frattempo, il 16 febbraio 2011, 110 militanti islamisti del “Gruppo Islamico Combattente” sono stati scarcerati, coll’evidente scopo di crearsi degli alleati, tra il movimento islamista libico, nello scontro con l’ala radicale del Congresso del Popolo, contro cui il governo, per dare una dimostrazione della sua forza sul terreno, ha mobilitato a sua volta masse popolari da Bengasi a Tripoli (quasi per nulla interessata dalla rivolta), da Sirte a Misurata, che innalzando bandiere verdi e ritratti di Gheddafi, proclamano la loro fedeltà al regime.

Non è un caso che tali moti, probabilmente diretti dai locali Comitati Rivoluzionari, esplodano a Bengasi. Bengasi è lontana da Tripoli, e come è dimostrato storicamente, nei processi di liberalizzazione il centro ne ricava i vantaggi, mentre la periferia ne subisce le conseguenze negative. La lontananza dal centro di potere ha permesso ai Comitati Rivoluzionari locali di organizzare una manifestazione popolare, che non è solo una risposta alla politica economico-diplomatica di al-Baghdadi, ma è anche un monito a tutti coloro che, dietro le ‘riforme‘ e l’apertura al mercato internazionale, vogliono demolire lo Stato dei Comitati Popolari e Rivoluzionari nato con la Rivoluzione del Settembre 1969. La base militante e i quadri rivoluzionari non staranno di certo a guardare, mentre avanza il processo di erosione delle conquiste sociali e politiche ottenute né, tantomeno, permetteranno che tale processo si svolga in maniera indisturbata.

La borghesia libica vuole abolire le garanzie sociali di Gheddafi

Insomma, in Libia si stanno affrontando, non da ora ma da anni, due linee politiche, entrambe basate sul principio della Democrazia Diretta: la linea del premier al-Baghdadi, trasformatasi in una politica di demolizione delle istituzioni della Jamahiriya, dettata dalle esigenze della nascente borghesia compradora libica di integrarsi nel processo capitalistico internazionale, e geopoliticamente orientata verso l’UE e gli USA; mentre l’altra linea, geopoliticamente orientata sul Mediterraneo e l’Africa, legata ai Comitati Rivoluzionari, e costituita dalla stragrande maggioranza dei militanti e dei quadri dei Comitati Rivoluzionari e Popolari, vuole bloccare, o quanto meno attutire, gli aspetti degenerativi e gli effetti negativi creati da tale processo di ‘apertura’. Solo in tale contesto si può spiegare il perché di simili esplosioni conflittuali in Libia; il conflitto ha una natura intrinsecamente interna, che nasce dalla società libica, e poca influenza hanno i fantomatici centri di opposizione all’estero o le ancor più fantomatiche ONG dei diritti umani statunitensi. Tale frattura, sebbene esplosa come concausa degli eventi che colpiscono le confinanti repubbliche arabe, ha origine, natura e conclusione che rientrano pienamente nel processo di riassestamento politico-istituzionale interno libico. E gli entusiasmi e gli appelli all’instaurarsi di una democrazia liberal-capitalistica in terra libica, hanno punto o poca ragion d’essere, soprattutto perché vengono rivolti alla parte della popolazione libica che si rivolta proprio perché rifiuta questo modello occidentale.

Alessandro Lattanzio, redattore della rivista di studi geopolitici “Eurasia”

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