In tutti i festival del cinema occidentali siamo abituati da anni che film girati da oppositori politici legati all’Occidente siano spacciati per film “cinesi”, “russi” o “iraniani”. Tuttavia ogni tanto ci sono eccezioni e i festival accettano di farci vedere veramente opere di quei paesi, come nel caso della stupenda opera prima “Un primo addio” della cinese Wang Lina, realizzato dallo stato cinese e dedicato agli uiguri dello Xinjiang, già vincitore del “Best Asian Future Film Award” al Tokyo International Film Festival. Il film è quasi un documentario in cui i piccoli Isa Yasan, la intraprendente Kalbinur Rahmati e suo fratello Alinaz, mantenendo i loro nomi nella pellicola, vivono, giocano, aiutano i loro genitori in campagna, tra piantagioni di cotone, deserti, fiori di primavera e fredde nevicate invernali. La loro vita scorre tra la casa segnata dalle tradizioni musulmane e dalla lingua turcofona e la scuola in cui sotto falce e martello e con il fazzoletto dei pionieri apprendono d’essere parte della grande Cina Popolare di Mao, Deng e Xi Jinping. Una straordinaria fotografia ci sospinge, fotogramma dopo fotogramma, seguendo il loro percorso di crescita raccontato con tutta la poesia, la bellezza e il rispetto che si devono a una cultura. Un film che ribadisce l’impegno a fianco degli uiguri del governo cinese contro il separatismo etnico fomentato dall’imperialismo.
Altra pregevolissima opera prima è “Le pietre parlano” del bosniaco Igor Drljača che da Medjugorje, con le sue torme di cattolici, a Visegrád in cui Kusturica ha edificato il quartiere di Andricgrad in omaggio al grande scrittore Ivo Andrić, che alla città ha dedicato il suo capolavoro “Il ponte sulla Drina”, a Tuzla città multiculturale, a Visoko tra le betulle che nascondono le presunte piramidi venerare dagli adepti dell’energia cosmica, ai luoghi toccanti della Resistenza contro il nazifascismo dei partigiani comunisti di Tito, realizza un documentario di profonda bellezza estetica attraverso la Bosnia-Erzegovina di oggi, costretta, dopo la chiusura delle fabbriche e delle miniere con la fine del socialismo, a reinventarsi come terra turistica.
I comunisti si organizzano nel 1965 nel Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan e offrono un contributo fondamentale prima per l’avvento della Repubblica nel 1973, poi nel guidare la Rivoluzione di Saur del 27 aprile 1978, con la quale si pone fine all’esperienza di governo di Mohammed Daud Khan che in cinque anni non aveva modificato i rapporti economici e sociali del paese. Alla Rivoluzione segue un anno e mezzo turbolento, sotto la guida prima di Nur Muhammad Taraki e poi di Hafizullah Amin, tuttavia le riforme sono impetuose, viene data la terra a ventimila contadini, viene abolita la decima dovuta ai latifondisti dai braccianti, si persegue l’usura, vengono calmierati i prezzi dei beni primari, vengono statalizzati i servizi sociali garantendoli a tutti, si introduce il diritto di voto per le donne, si legalizzano i sindacati, si creano un codice civile e uno penale che riducono l’intromissione religiosa nella gestione della giustizia e vieta i matrimoni per le bambine, la scuola e l’università diventano gratuite e aperte anche alle ragazze. Gli eccessi laicisti dei primi due capi di stato rivoluzionari sono corretti dai loro successori, prima Babrak Karmal dal dicembre 1979 e poi dal 1986 al 1992 Mohammad Najibullah. L’avvento dei talebani sostenuti dall’Occidente in funzione anticomunista distruggerà tutto questo, Najibullah verrà da loro ucciso dopo brutali torture, di Karmal distrutta la tomba e disperso il corpo. Il socialismo è quindi durato poco più di un quindicennio ma tra i suoi meriti va ascritta anche la promozione della cinematografia nazionale, questo racconta la regista Mariam Ghani con lunghe interviste agli attori e ai registi dell’epoca in “Quello che abbiamo lasciato incompiuto”.
“Non percorrere senza di noi la via giusta, senza di noi è la via sbagliata.” L’affermazione certo molto assertiva e perentoria è di Bertolt Brecht, che in tutta la sua vita è stato animato tra passioni, quella per la politica, quella per il teatro, fuse in un impegno militante imprescindibile e inscindibile che era il modo di essere comunisti nella sua epoca, si pensi anche ad Anna Seghers, Johannes Becher e a tanti altri scrittori e intellettuali del Novecento, la terza quella per il fremito della carne femminile. Il “noi” della citazione è il Partito, con la maiuscola e senza specifiche, perché il comunismo all’epoca era monolitico e non ammetteva e non necessitava di spiegazioni, la KPD fino al 1933, la SED dal 1947 con il suo ritorno in Germania, tra l’altro nel ’49 a Berlino è tra i fondatori della DDR. Nel docu-film realizzato dalla televisione bavarese, Brecht d’altronde è nato ad Augusta, c’è il teatro, seppur con deplorevoli omissioni: l’amicizia con Erwin Piscator, le pedane mobili del Teatro del Popolo, l’attività culturale e pedagogica nelle fabbriche, non mancano gli amori del geniale drammaturgo, scompare invece totalmente la politica, dando così vita a un “Brecht” di Heinrich Breloer tanto falsificatorio da rasentare il ridicolo.