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Andrew Spannaus racconta gli Stati Uniti che cambiano

Leggendo la vasta produzione di Andrew Spannaus non solo ci si convince che sia tra i maggiori, più attenti e puntuali conoscitori della sua nazione, ma anche come l’intrinseco servilismo del sistema mediatico e culturale occidentale verso Washington porti spesso a non comprendere che cosa ci stia spiegando.

D’altronde Spannaus scandaglia con millimetrica precisione l’attualità degli Stati Uniti, in cui il trumpismo da un decennio sta portando fuori l’intero sistema politico dalla dittatura ideologica del globalismo iperliberista, il quale invece impera in Europa con un dogmatismo la cui rigidità ha pari solo nell’imbecillità con cui le classi dirigenti lo difendono.

Spannaus, in “Rivincita – L’enigma americano spiegato agli europei” per le edizioni Solferino, analizza come non lo sfrenato liberoscambismo, ma una oculata politica di protezione della capacità produttiva interna abbia portato nel XIX secolo gli Stati Uniti a diventare la potenza economica e militare che si è esplicitata nel corso del secolo seguente. Scrive: “Le figure che hanno impostato la direzione della nuova nazione, in aperto contrasto con il sistema inglese del libero scambio propugnato da personaggi come Adam Smith e John Locke, erano Benjamin Franklin e Alexander Hamilton e successivamente Henry Clay, Henry Carey e Abraham Lincoln. Per quasi tutto il XIX secolo, questa corrente si batté per utilizzare i poteri dello Stato centrale in modo da facilitare la crescita dell’economia privata, attraverso tre strumenti principali: la protezione, cioè i dazi sui prodotti da oltremare; gli investimenti nelle infrastrutture; e un sistema finanziario pubblico per indirizzare i capitali verso lo sviluppo delle manifatture. Il sistema fu codificato di fatto da Hamilton quando era il segretario al Tesoro nei primi governi della nuova nazione, sotto la presidenza di George Washington.”

A quei modelli, ancorché dimenticati, i quali hanno radici profonde in una parte della teoria e della prassi politica statunitense, si richiama Donald Trump, che lo stesso autore senza esitazione definisce scurrile, offensivo, perennemente arrabbiato, contraddittorio, imprevedibile, dall’aria insopportabilmente truce, eppure: “per suprema ironia della storia una persona di questo genere ha portato a un momento di maggiore democrazia, dando voce a istanze che le istituzioni di Washington avevano pensato di poter ignorare.” Anche perché “nella sostanza, Donald Trump propone posizioni ragionevoli e anche moderate su alcune questioni importanti, dall’economia alla politica estera ai temi sociali”, dando vita a un populismo sostanzialmente “anti-liberista e anti-guerra”, in aperto conflitto con gli apparati dell’establishment tanto repubblicano, quanto democratico, seppur molti del primo siano transitati in questi anni nel secondo. La signora Clinton definisce Trump un miserabile a capo di un branco di miserabili, ma tanto odio offusca la realtà di cui lei, il coniuge, gli Obama, i Bush son stati autori e interpreti, creando quel disastro sociale che ha costruito il consenso trumpiano.

Ricorda Spannaus: “Il modello neoliberale, avverso all’intervento pubblico e agli strumenti per proteggere e promuovere le attività produttive, ha preso il sopravvento. Ci sono voluti anni prima che scoppiasse la crisi vera e propria, perché quanto costruito in precedenza era una struttura solida. Nel frattempo il progresso è comunque andato avanti in molti settori e il Paese è stato in grado in ogni caso di mantenere una posizione forte a causa del suo ruolo internazionale, ma la resa dei conti non poteva tardare molto. E purtroppo la classe politica e accademica non aveva più gli strumenti per affrontare questa sfida, avendo adottato una visione lontana da quella su cui era fondata la nazione.”

La follia speculativa e finanziaria, un capitalismo ultraliberista e aggressivo, l’esternalizzazione in giro per il mondo della produzione manifatturiera, hanno lasciato agli Stati Uniti solo lo strumento del dollaro e dei cannoni della NATO per affermare un primato che nella sua sostanzialità, ovvero capacità di innovazione economica, scientifica, tecnologica e conseguente benessere dei cittadini si è spostato altrove. Si è trasferito in quella Cina che a Washington immaginavano alleata durevolmente subalterna e invece si è rivelata competitrice internazionale nella proposizione di un nuovo ordine mondiale multipolare volto ad archiviare il secolo statunitense (1945 – 2012) e la sua logica di furto delle materie prime energetiche ed alimentari da tutto il pianeta a esclusivo vantaggio dell’Occidente.

Il vangelo della deregulation, ci ammonisce Spannaus: “ha ridotto le protezioni per numerosi settori industriali e infrastrutturali, introducendo una maggiore competizione sui costi grazie all’entrata dei grandi capitali in nuove aree dell’economia. L’obiettivo dichiarato era l’efficienza, ma troppo spesso l’effetto ultimo era di trovare capitali utili per continuare ad alimentare i giochi finanziari. Bene per chi aveva investimenti in borsa e nei fondi che si impegnano a estrarre valore dalle attività produttive; male per chi ci lavorava e anche per il servizio offerto ai cittadini. … Continuavano l’innovazione e la modernizzazione della società, ma i frutti non venivano distribuiti in modo equo; aumentavano le disuguaglianze, con la stratificazione dei guadagni. Negli anni si è visto il consolidamento di una classe benestante di circa un terzo degli americani che continuava a migliorare la propria posizione, mentre gli altri gruppi hanno vissuto una stagnazione o anche un arretramento.” Tutto questo ha impoverito considerevolmente la classe media colpita da una perdita di posti di lavoro ben pagati nell’industria: “Per molti anni l’occupazione si è spostata verso i servizi poco pagati, come i negozi e il fast food. Se negli anni ‘60 il 24% dei lavoratori era impiegato nelle manifatture, nel 2024 quella cifra è sotto il 10%. …Ci sono anche i servizi professionali ben pagati, importanti fonti di nuovo valore, ma a livello complessivo la perdita della produzione è stata accompagnata da un peggioramento del reddito per i lavoratori della classe media”, aggiungendo un parallelo deterioramento delle infrastrutture viarie, del sistema scolastico e universitario, di quello sanitario e sociale, finanche della situazione abitativa degli statunitensi.

A fronte di tutto questo: “C’erano voci che chiedevano un cambiamento di fase, un ritorno alle regole che avrebbero disincentivato le attività speculative e una nuova stagione di intervento pubblico. L’establishment non era pronto per una svolta di questa portata. Si ragionava ancora con il vecchio paradigma, pensando al massimo di aggiustare le regole del libero mercato per aggiungere qualche freno al sistema, ma salvando la finanza senza ripensare il suo ruolo nell’economia.”

È così che negli anni Trump ha costruito un consenso decisivo “tra i lavoratori sindacalizzati degli Stati post-industriali e «arrugginiti» – Michigan, Wisconsin e Pennsylvania– proprio con il suo messaggio a favore della reindustrializzazione del Paese, con un messaggio anti-globalizzazione e anti-Wall Street”. Così, mentre i democratici – nonostante gli sforzi in senso sociale, con considerevoli investimenti pubblici compiuti dalla stessa amministrazione Biden e ben documentati da Spannaus – si mostravano agli occhi dei cittadini come il baluardo della finanza speculativa e della guerra per la difesa della predatoria globalizzazione sotto l’egida del dollaro, Donald Trump ha avuto gioco facile nel costruire un nuovo partito di lavoratori, disoccupati, contadini poveri: “questo deterioramento del tessuto produttivo ha avuto un forte impatto sociale ed anche politico. Sentirsi dire che l’economia va bene perché la borsa sale e le multinazionali nel settore tech fanno faville ha solo approfondito il senso di abbandono di molte comunità colpite dall’aumento della disoccupazione e dal relativo degrado sociale.”

La sovranità monetaria è un pilastro di questa nuova stagione: “nessuno ripaga il debito pubblico e non ce n’è nemmeno bisogno. Uno Stato sovrano è in grado di generare tutte le risorse finanziarie di cui ha bisogno, perché i soldi non vengono dalle rocce, dai cittadini e tanto meno dai cinesi. Sono creati semplicemente al computer, «stampati» virtualmente dalle banche centrali e forniti al sistema finanziario attraverso il governo o le banche, con il solo limite di come vengono impiegati: se creano squilibri come l’inflazione e le bolle speculative, allora bisogna limitare o cambiare la modalità di utilizzo e di investimento. Se invece mancano le risorse per far girare l’economia al servizio dei cittadini, vanno aumentati dirigendoli verso gli impieghi più utili e produttivi.”

Per Spannaus nella nazione a stelle e strisce si è aperta una stagione nuova, in cui la spinta propulsiva della richiesta di cambiamento, che accomuna tanto la base trumpiana, quanto ampi settori del mondo progressista, porrà fine alla finanziarizzazione dell’economia, ai tagli allo stato sociale e alla politica estera imperiale e coloniale, certamente questo: “non significa che gli Stati Uniti siano diventati un Paese socialista o comunista. Rimangono capitalisti”, ma assisteremo a una radicalesvolta post-globale, si svilupperanno: “il protezionismo e gli investimenti pubblici per favorire le manifatture, il potenziamento delle infrastrutture (almeno in parte) e un nuovo approccio alla spesa pubblica, sfidando in toto la narrazione dominante degli economisti e delle istituzioni pubbliche di oggi, negli Stati Uniti ma ancora di più in Europa”.

Aggiunge Spannaus: “la globalizzazione, cioè le regole del libero mercato promosse attraverso trattati commerciali e organismi internazionali, non è più considerata l’obiettivo da seguire, tanto che Washington pratica apertamente il protezionismo verso l’esterno e la politica industriale per promuovere le attività produttive al proprio interno”. Allo stesso modo per Spannaus la politica estera sta cambiando, il sostegno ai sionisti, lo scontro con i russi e le minacce ai cinesi rappresentano “strascichi del mondo vecchio e pesanti incidenti di percorso che interrompono un tentativo di riorientamento generale”.

Il precipizio di una guerra mondiale imminente parrebbe sventato dopo la sconfitta presidenziale di Kamala Harris, l’auspicio è che le trasformazioni in corso negli Stati Uniti trovino forme di dialogo con il crescente consenso planetario della proposta multipolare sino-russa. In ogni caso l’umanità è in cammino e la storia, con buona pace di Francis Fukuyama, non è finita.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.