Era il 1985. Elvezia era ancora solo il paese di Henry Dunant e il popolo svizzero viveva ipnotizzato dalle visioni inculcate dal regime. Jean-François Bergier, come la cattiva coscienza della Confederazione, uno sconosciuto.
Era il giugno del ’85. In tribunale il discorso divenne presto politico. Come un rosario, gli stereotipi in voga in quegli anni mi furono snocciolati tutti: l’esercito aveva tenuto lontano i nazisti, le banche svizzere erano illibate e le autorità avevano fatto il possibile per far salire a bordo chi ancora poteva stare su di una barca che straripava. A sentirlo oggi sembrerebbe un discorso fra avvinazzati, ma eravamo in tribunale. Nel tempio della giustizia, in quel giorno di primavera, io ero l’eretico. Era il millennio scorso. Sembra di parlare di 1000 anni fa. In realtà sono passati solo 25 volumi. Quelli che Jean-François e compagni hanno scritto dopo 5 anni di lavoro, lasciando Elvezia nuda e svergognata, con lo sfintere dolorante.
Ma nel ’85 la vergogna della Patria ero io. Lo disse il tribunale. Lo disse pure l’uditore. Lo stesso che 20 anni dopo è finito sui giornali di mezz’Europa per il suo coinvolgimento in un crack che ha ridotto sul lastrico migliaia di piccoli risparmiatori. Quello della Parmalat.
“Vergogna della patria”: un concetto a geometria variabile sostenuto a quel tempo, ma ancora oggi, soprattutto da figure ad angolo ottuso.
Avevo 22 anni e secondo un giudice con la faccia da pirla, con il mio modo di fare calmo e pacato già nascondevo una mentalità suscettibile di minare le basi dell’ordinamento democratico. Lo disse per giustificare una sentenza, 9 mesi da scontare, che probabilmente anche a lui sembrava assurda. Ma tanto fece che tanto mi feci. Ma riguardo all’ordinamento democratico di cui il giudice con la faccia da pirla andava vaneggiando, mi sorse qualche dubbio.
Era solo il primo di una lunga serie che questa storia ha generato.
Avevo 23 anni quando alle mie spalle chiusero la porta della cella 15, sezione “i”. Un buco di 8 metri quadrati fra il cemento armato. Da far passare la fame a un bulimico.
Secondo il codice penale il carcere deve dar modo al condannato di redimersi, …ma qualcosa non funzionava. Lì erano quasi tutti recidivi. Al parlatorio incrociavo bambini a cui un tribunale aveva scippato il papà. In sezione vedevo tossici curati in cella d’isolamento. Ancora una volta il sistema mi mostrava i suoi limiti e la sua ipocrisia.
Parecchio disorientato mi iscrissi alla facoltà di criminologia.
Scoprii la logica della ricerca degli indicatori utili a fare un discorso sensato sul crimine e il modo di contrastarlo. Poi 12 anni di giornalismo mi hanno insegnato a denunciare solo le cose che si possono dimostrare. L’informazione è una cosa seria, influenza l’opinione della gente e quel che si scrive deve essere d’interesse pubblico e dimostrabile… Così credevo finché non ho incontrato gente con la faccia del giudice dei miei 20 anni. Gente al servizio di verità omologate come quelle che hanno permesso ai governanti di questo ed altri Paesi di turlopinare i cittadini e rubargli il voto.
Forti con i deboli e tappetini con i forti.
Adesso ho 44 anni. Da due hanno smesso di condannarmi per la protezione civile, ho la fedina penale che sembra un elenco del telefono, e di una cosa sono cosciente: morirò inadeguato.
Meglio così.
Michel Venturelli
Già pubblicato in: “Obiezione” – nr. 66 – luglio/settembre 2007