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Sappiamo che non potrà esserci, ma la invitiamo comunque, il dovere ce lo impone.

Un insegnante sessantenne di Nazareth ritrova suo figlio partito in Italia per fare l’architetto. Siamo nei territori occupati e la missione dei due è consegnare personalmente gli inviti a tutti gli oltre 300 invitati al matrimonio della figlia/sorella, come il wajib (dovere, costume) impone.
In un’unica scena-sequenza gli interni della vecchia Volvo e delle case degli invitati fanno da scenario allo svolgersi della vicenda umana scandagliata dal film con convincente veemenza. Il confronto tra i due si gonfia e prende forma lentamente, come le nuvole di un temporale. Si parte dalle mancanze di pragmatismo del figlio, ad esempio in occasione di un invito “dimenticato” ma in realtà inesistente. Il padre deve allora fabbricarlo sul momento per non offendere nessuno e salvare le apparenze, cosa che il giovane divenuto ormai alieno non ha avuto la finezza di fare. L’escalation comincia con la critica all’abbigliamento stravagante del figlio, che porta i capelli lunghi e indossa pantaloni rossi e camicie rosa. “Come farai a trovare moglie così?”, si chiede il padre.
Il punto di rottura arriva quando i due si trovano a svoltare in direzione di una colonia israeliana, e il figlio si rifiuta di andare a consegnare l’invito al direttore dell’istituto dove lavora il padre. “Non lo vuoi al matrimonio di tua sorella perché è ebreo!”, “No, non lo voglio perché è una spia sionista!”. Il battibecco degenererà in una seconda ripresa, esacerbando le differenze tra chi è partito ed ha conservato una visione più radicale, il figlio, e chi è rimasto ha dovuto essere più pragmatico e scendere a compromessi: il padre, che ambisce a una promozione ed è quindi essenzialmente costretto, volente o nolente, a invitare il suo superiore al matrimonio della figlia.
Il giovane architetto, in un momento di sospensione della diatriba perché in casa di parenti, si toglierà la soddisfazione di farsi attribuire una multa di guida imputabile a un cugino, gesto che sa di ripicca nei confronti del padre ma rappresenta in realtà un ulteriore conferma delle differenti visioni in gioco. Per il padre, infatti, il problema era che una precedente del genere avrebbe potuto compromettere il suo futuro professionale al rientro in Palestina, un rientro che il giovane semplicemente non sta prendendo in considerazione.
Il confronto tra la visione del padre e quella del figlio sul matrimonio serve insomma come pretesto per mettere a nudo e confrontare due differenti visioni sulla questione palestinese, sempre dal punto di vista palestinese. La madre partita in America disonorando il padre e l’intera famiglia, perlomeno a detta sua, in quanto i figli sono più miti nel giudizio nei confronti della genitrice, rappresenta un ulteriore elemento di confronto. L’attitudine della madre, che ha fatto spostare la data del matrimonio per poter essere presente ma rischia di non esserci a causa di problemi di salute del suo attuale compagno, scalfisce parzialmente l’unità della famiglia mettendo alla prova la figlia, che non è ridotta a mera comparsa ma resta piuttosto una cartina tornasole del dibattito in corso tra i due uomini (sono difatti loro a decidere se e fino a che punto tenerla aggiornata sulle informazioni che giungono da oltre oceano).
Un primo importante punto di contatto tra i due si verifica quando, al secondo passaggio in auto nella colonia israeliana, investono inavvertitamente un cane. Dopo un piccolo vuoto parte il panico, una fulminea verifica che non vi siano testimoni oculari e la repentina inversione di marcia. L’isteria è subito spiegata dagli stessi personaggi: in quei territori, perversa ironia, si prevedono ritorsioni severissime per chi anche solo ferisca un animale.
Dopo il secondo diverbio, il figlio esce dall’auto e lascia il padre solo. Rientrerà a casa trovandola vuota, solo il vicino con cui fermarsi e fare due chiacchiere davanti a una birra. Dalle parole del vicino emerge l’amore che il padre gli tributa, nonostante le aspre critiche delle ultime ore dettate forse da un burbero ma fondamentalmente bonario paternalismo. Dopo questa presa di coscienza (i sentimenti sono reciproci), il giovane rincaserà non senza qualche lacrima a rigargli il viso. Messo il caffè sul fuoco e uscito sul terrazzo, nella sequenza finale vediamo il padre rientrare e portare fuori pentolino e tazze, nel convergere di un’immagine del duo pacificato sullo sfondo dei tetti di Nazareth.

Amos Speranza

Amos Speranza (1992), di formazione storico, è direttore di #politicanuova, il quadrimestrale marxista della Svizzera Italiana, ed è membro del Comitato Centrale del Partito Comunista (Svizzera).