Il Festival di Locarno, persa la parola “film”, dopo aver evanescentemente perso quella “internazionale”, offre molto cinema occidentale, per altro poco convincente. Abbiamo visto ad esempio quattro donne svampite, una madre francese depressa (“Domani e tutti gli altri giorni” di Noémie Lvovsky), una scrittrice georgiana incompresa (“Sashishi deda” di Ana Urushadze), una tedesca ibsenianamente in fuga dalle sue responsabilità (“Libertà” di Jan Speckenbach), un’italiana nevrotica e possessiva (“Amori che non sanno stare al mondo” di Francesca Comencini), capaci di mostrare oltre alla loro fragilità personale, anche quella delle sceneggiature e dei dialoghi. Ugo Brusaporco, critico de “La Regione Ticino” è lapidario, “son film imperfetti che raccontano la crisi morale, politica, umana di un continente cupo, senza più riferimenti”. Si aggiungano poi le violenze postoperaie in Danimarca (“Fratelli d’inverno” di Hlynur Pálmason), il papà turco che diventa signora francese (“Lola Pater” di Nadir Moknèche) e il quadro è completo.
Anche sul tema dei flussi migratori (“Benvenuti in Svizzera” di Sabine Gisiger) prevale il superficiale buonismo riducendo una realtà complessa, anche in Svizzera come in tutta Europa, a una macchiettistica rappresentazione dei buoni e accoglienti e dei cattivi e razzisti, senza indagare ragioni e problemi, sfruttamento delle risorse energetiche e alimentari, negato accesso a casa, scuola, lavoro, e ancor prima all’acqua e al cibo, per milioni di esseri umani. Come gli europei che emigravano nelle Americhe un secolo fa, anche oggi fame e disperazione mettono in fuga donne e uomini di tutti i continenti, ma questa situazione ha un nome preciso ed è: capitalismo, che sfrutta, ruba le materie prime e obbliga queste persone a cercare sopravvivenza lontano dalla loro patria, alimentando la guerra tra poveri nel Vecchio Continente, una gara alla riduzione dei salari che è contro i lavoratori a solo vantaggio dei profitti, se poi in questa situazione nella necessaria salvaguardia umanitaria delle persone si intromettono mercanti di uomini e certe ONG più legate alle multinazionali speculative piuttosto che ai Diritti dell’Uomo, il quadro che ne esce è davvero sconfortante, della realtà, del livello di analisi politica delle forze progressiste europee e ovviamente dei film.
Un lampo nella generale mediocrità di molti film (non abbiamo citato i peggiori, meglio dimenticarli!), è stato in Cineasti del Presente “Severina” di Felipe Hirsh, capace, pur con qualche cedevolezza di troppo a molti generi diversi, di costruire una commedia vivace, di raccontare come l’amore per la lettura, i libri e la cultura possa davvero rendere ricca e appassionante la vita e – come sottolinea uno dei protagonisti – i libri siano indispensabili per la lotta di classe, necessaria fintanto che il capitalismo e la diseguaglianza saranno così diffusi.
Bello, pregevole e importante, esattamente trent’anni dopo lo straordinario capolavoro “Nozze in Galilea” di Michel Khleifi, un nuovo matrimonio a Nazareth, raccontato in “Dovere” di Annemarie Jacir, regista capace di unire grinta, talento e chiara volontà di difendere attraverso le sue opere le ragioni di un popolo oppresso dal sionismo, un’ideologia capace di disgregare in Palestina la secolare amicizia tra cristiani, ebrei e musulmani. Il film racconta di un padre professore obbligato a molti compromessi per poter rimanere nella sua terra e di un figlio emigrato in Italia, dove milita insieme alla sua compagna, figlia di un dirigente dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. I due si ritrovano nella città della Galilea per distribuire gli inviti per il matrimonio di quella che per uno è la figlia e per l’altro la sorella. È l’occasione per due mondi lontani, la silenziosa Resistenza dell’interno e la più vivace Resistenza dell’estero, di discutere e di riflettere a voce alta per tutta la durata del film, un dialogo in cui lacerti di quotidianità, rappresentata dalle case e dalle parole delle persone che incontrano, si inseriscono nel confronto tra Mohammad e Saleh Bakri, padre e figlio anche nella realtà, il primo vincitore proprio a Locarno con il film contro l’occupazione della Cisgiordania “Private” di Saverio Costanzo nel 2004. Emerge tutta la fragilità di una società, quella palestinese in Israele e nei Territori Occupati, fortemente chiusa, obbligata, in ragione della permanente tensione imposta dall’esercito e dal governo israeliani, a doversi confrontare più con questa aperta ostilità, piuttosto che con lo scorrere del tempo. I rimandi e i paralleli con il film di Michel Khleifi sono moltissimi, allora il matrimonio si aveva fatica a celebrarlo secondo la tradizione, questa volta la tradizione diventa l’involucro un po’ ammuffito da cui non si può uscire, allora gli israeliani volevano vietare la musica, questa volta la musica c’è, ma è quella di un cantante che piace solo agli anziani, il cortocircuito temporale tra le due opere rimanda a una costante non variabile, i palestinesi soffrono e non sono liberi nella loro terra, una situazione drammatica che non vede ancora soluzione.