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“300 miles”: da propaganda anti-Assad a testimonianza delle contraddizioni dei ribelli siriani

Ambiguo, ma ricco di spunti interessanti: così potremmo descrivere “300 miles” di Orwa al Mokdad, pellicola che ha portato al Festival del Film di Locarno un tema scottante e di strettissima attualità della politica internazionale, quello del conflitto in Siria. Se da un lato ciò costituisce un merito innegabile, dall’altro l’impostazione e il messaggio del film presentano varie e importanti criticità che, ai miei occhi, ne compromettono il risultato finale (e, soprattutto, distorcono la percezione della questione da parte del grande pubblico).

Ma cerchiamo prima di tutto di inquadrare il regista, principale filtro che si frappone tra lo spettatore e la realtà: 29 anni, siriano, “rivoluzionario della prima ora” (come lui stesso ama definirsi), Orwa al Mokdad corrisponde all’archetipo del “giovane manifestante per la democrazia” delle primavere arabe, figura ormai ben radicata nell’immaginario collettivo occidentale grazie al sapiente (e martellante) lavoro degli spin-doctor al soldo dei governi atlantici. Oppositore di Bashar al-Assad fin dai primi moti del 2011, questo giornalista, che ha lavorato, tra gli altri, anche per la BBC, ha già all’attivo diverse produzioni cinematografiche fortemente critiche verso il governo laico siriano, le quali, inutile dirlo, hanno riscosso particolare successo e attenzione proprio in Occidente (il suo cortometraggio “Under the tank” del 2014 era stato selezionato anche a Locarno).

Il lungometraggio proiettato quest’anno costituisce un ulteriore passo in questa direzione: realizzando un docu-film con immagini e testimonianze raccolte sul terreno, al Mokdad intendeva mostrare al pubblico occidentale la presunta brutalità del “regime” di Assad e, viceversa, la bontà e la giustizia dei combattenti “per la libertà”. Credo però che proprio quanto ritrovato al fronte abbia provocato un mutamento sostanziale nel suo approccio: dall’attestazione di una realtà ai suoi occhi incontrovertibile passa infatti alla ricerca di un’illusione, lanciandosi nel disperato tentativo di ritrovare un barlume di senso e di civiltà nel delirio e nel caos del fronte d’opposizione. Ricerca che, come mi accingo ad illustrare, si rivela vana e, sotto certi aspetti, quasi controproducente.

La narrazione si articola su tre vicende principali, sapientemente scelte nel caos siriano, che s’intrecciano l’una con l’altra per dimostrare le tesi del regista (le sofferenze della popolazione civile, la bontà dei ribelli, la repressione sanguinaria del regime, ecc.), ma in cui possiamo anche ritrovare numerosi elementi che ne contraddicono alcuni aspetti.

La prima è quella di una banda di combattenti del FSA (Free Sirian Army), la frangia “moderata” e “laica” dell’opposizione che incarna le speranze dell’Occidente (benché rimanga una frazione marginale dello schieramento e non corrisponda esattamente a tale descrizione), da cui riceve supporto politico e militare. La testimonianza del comandante di questo “battaglione” ci fornisce però un panorama ben diverso da quello dipinto dai nostri mass media: questo gruppo armato, paradigma di tutte le fazioni in campo contro Assad, è completamente allo sbando, senza direttive e senza obiettivi, se non il proseguimento tout court della guerra (in cui diventa difficile pure identificare un vero e proprio “nemico”, come afferma lo stesso comandante: “combatteremo tutti: lealisti, islamisti, miliziani di Daesh, soldati, civili…”). I “ribelli” hanno ormai perso il contatto con la realtà e con esso ogni riferimento politico (emblematica la scena in cui alla domanda “dove è finita la rivoluzione in tutto questo?”, il leader della banda si rifiuta di rispondere e cambia discorso), finendo per trovare conforto e guida unicamente nella religione, con sfumature più o meno integraliste (in vari passaggi sentiamo questi “laici” miliziani inneggiare all’intervento di Allah, che permetterà loro di sopraffare il regime “infedele” di Assad).

La seconda vicenda raccontata dal regista è quella di un gruppo di “attivisti pacifici” che vagano tra le macerie di un paese devastato, espressione di quella gioventù alla ricerca di maggiori diritti che è stata “repressa nel sangue” dal regime “dittatoriale” di Assad nella primavera del 2011. Anche qui però le immagini e i racconti dei personaggi mostrano una realtà ben differente da quella che ci viene proposta in Europa: il pubblico vede con i propri occhi la deriva in termini di qualità di vita causata dal conflitto, che ha fatto sparire ogni traccia del benessere e della ricchezza culturale diffusi prima del 2011, lasciando spazio solo a miseria, devastazione e fame (in un passaggio, uno di questi giovani “attivisti” racconta di come si sia trovato a dover nascondere i libri di un’intera biblioteca per salvarli dalle fiamme degli abitanti in cerca di calore nel freddo inverno siriano). Anche qui a farla da padrone è però il tema del caos e dello spaesamento politico del gruppo: anche i giovani “idealisti” scesi in piazza nel 2011 sono rimasti sopraffatti dal conflitto che hanno innescato, ed ora rinnegano il proprio recente passato, denunciando come le “ingerenze esterne” abbiano condotto la “rivoluzione” su dei binari differenti rispetto a quelli da loro immaginati (molto significativa in questo senso la scena in cui uno di questi ragazzi straccia davanti alla telecamera un documento dell’American Islamic Congress, organizzazione impegnata fin dal 2011 per promuovere “la lotta per la libertà politica” nei “regimi oppressivi” del Medio Oriente, sponsorizzata dai sionisti dell’American Jewish Committee e legata da alcune agenzie governative come lo United States Institute for Peace).

Infine, al Mokdad racconta la storia di una bambina di Daraa che, tramite affettuosi video-messaggi allo zio, mostra allo spettatore la quotidianità della guerra e del dolore (naturalmente da imputare al “mostruoso” Assad), ma anche le speranze dei civili che attendono solo la fine dei combattimenti per poter tornare ad un’esistenza “normale” e pacifica. In questo caso non posso sottrarmi dal condannare la meschina strumentalizzazione della bambina da parte del regista, nel solco delle peggiori strategie di “communication war” delle agenzie stampa occidentali, alla ricerca di un’immagine resa terribilmente sincera e onesta solo dalla tenera età dell’intervistata. La sua testimonianza, che scioglie il pubblico occidentale in un dolce e acritico “brodo di giuggiole” (tanto più perché portatrice del messaggio che si vuole sentire, a conferma della visione dominante del conflitto), non manca però di qualche elemento che contraddice quanto le si vuole far dire. In tal senso è particolarmente interessante la scena iniziale del film, in cui la bambina chiede allo zio: “Ti ricordi quando mi portavi a Damasco a comprare i giocattoli ed eravamo così felici?”; dopodiché la severa condanna: “E lo sai perché non ci possiamo più andare? Per colpa di… Bashar!”. Ancora una volta, vediamo come il ricordo del benessere precedente alla guerra sia ancora ben radicato nelle menti della popolazione civile, che però viene strumentalmente spinta ad identificare Assad come responsabile di tutta questa situazione (come se fosse lui ad aver imbracciato le armi, ad aver avviato uno dei più terribili conflitti civili di questo secolo e ad aver condannato alla miseria tutto il suo popolo!).

Il quadro che ci viene proposto da “300 miles” è quindi quello di un’opposizione estremamente frammentata, lacerata da guerre intestine, allo sbando, che combatte in un paese in preda al caos, all’anarchia e alla miseria: ogni elemento di critica costruttiva e pacifica al governo baathista (come poteva trattarsi in alcuni casi nel 2011) svanisce nella confusione che regna sovrana e nelle brutalità e nell’irrazionalità dei gruppi ribelli, promotori, nella stragrande maggioranza, di un’integralismo islamico che ha eletto a “nemico numero uno” proprio la laicità della repubblica siriana difesa dalle forze governative. Questo scenario sta a dimostrare come un’eventuale “rimozione” dal potere di Assad, come auspicano il regista e le potenze atlantiche, avrebbe l’unico risultato di avviare un processo di “libizzazione” del paese, facendolo sprofondare in un caotico scontro tra poteri tribali, fazioni integraliste e gruppi armati filo-imperialisti (come il FSA), di cui la principale vittima sarebbe la popolazione civile: esattamente come in Libia in seguito alla caduta di Gheddafi. Lasciamo immaginare al lettore quali sarebbero poi gli effetti sull’attuale crisi migratoria e quali sarebbero le conseguenze per l’Europa…

La “ricerca” del regista è quindi fallita e, anzi, produce l’effetto opposto a quello auspicato, rivelando numerose contraddizioni di fondo del fronte d’opposizione. Eppure pare che egli non sia disposto ad accettare una simile disfatta, spingendosi quasi fino alla “negazione” della realtà: al termine del film non vi è alcuna ritrattazione, nessun riferimento ad una via d’uscita differente rispetto a quella del conflitto “fino alla vittoria”, come lo intendono i gruppi armati dell’opposizione. Si lascia intendere che, benché tra i ribelli vi siano alcuni problemi, le loro motivazioni e il loro senso di giustizia siano più che mai validi, motivo per cui occorrerebbe sostenerli nella loro lotta e combattere le “atrocità” delle forze lealiste. Peculiare in questo senso è il riferimento e l’ambientazione ad Aleppo, una sorta di Sarajevo del 2016, in cui la barbarie della guerra potrebbe terminare solo grazie ad un intervento esterno (ossia della NATO e dei suoi alleati del Golfo), come era stato il caso per la città bosniaca a metà degli anni ’90. Tutto ciò senza far naturalmente menzione dell’atteggiamento delle forze governative e dagli alleati russi nei confronti dei civili: ricordiamo come queste, vicine solo qualche settimana fa a sottrarre Aleppo al controllo dei ribelli integralisti, abbiano creato vari corridoi umanitari per evacuare la popolazione civile prima di sferrare l’offensiva alla città.

Una scena del film 300 miles.
Una scena del lungometraggio 300 miles.

In conclusione, mi pare di poter affermare che il messaggio principale di questo film sia da ricercare proprio in questa “narrazione del dolore” che ci ha proposto Orwa al Mokdad: difficilmente il grande pubblico percepirà le contraddizioni di cui sopra e rimarrà quindi colpito ancora una volta solo dalla denuncia della “brutalità del regime” (come è ormai abituato da qualche anno a questa parte), dall’appello al sostegno ai “ribelli per la libertà” e dalla necessità di fermare le sofferenze cui è sottoposta la popolazione (sofferenze di cui Aleppo è divenuta il topòs per eccellenza). Tutto ciò ha un unico e chiaro fine politico: rendere attenta la società civile occidentale della crisi in cui si trova l’opposizione “moderata e democratica” siriana, impantanata in un contesto caotico e pericoloso e impossibilitata a difendere i civili dal “terrore” del regime di Assad; se si vuole evitare che questa opposizione “illuminata” scompaia, lasciando in campo unicamente le fazioni integraliste come Daesh o al-Nusra da un lato e le forze governative dall’altro (entrambe crudeli, bestiali, “inumane”), occorre fare qualcosa. Questo “qualcosa” si può tradurre naturalmente solo in un intervento “boots on the ground” da parte delle truppe dell’Alleanza atlantica e delle petromonarchie del Golfo, ancora una volta chiamate a riportare “ordine e giustizia” nel mondo. Dall’Iraq però si è imparato parecchio sul ruolo dell’opinione pubblica e della comunicazione di massa e, per evitare la nascita di un nuovo movimento pacifista, si è già iniziato a “preparare il terreno” a livello ideologico, bombardando il pubblico con le atrocità del nemico e costruendo un consenso interno che impedisca di dover giustificare alla popolazione le proprie scelte di politica estera.

“300 miles” si inserisce perfettamente in questo disegno, eppure, se visto con sguardo critico e attento, ci può dare strumenti e informazioni utili a combattere le false verità che vengono riportate da contenuti mediatici simili. Un film da vedere, ma unicamente senza i paraocchi della propaganda mediatica occidentale.

Zeno Casella

Zeno Casella, classe 1996, è consigliere comunale a Capriasca per il Partito Comunista. Tra il 2015 e il 2020, è stato coordinatore del Sindacato Indipendente degli Studenti e Apprendisti (SISA).