Ambientato a Newcastle, il film di Ken Loach proiettato giovedì sera in Piazza Grande, già vincitore della Palma d’Oro a Cannes, è un grido contro il lungo e costante declino delle condizioni di vita in Europa, mostrando un Welfare state incapace di far fronte alle richieste di aiuto delle persone che stanno dietro numeri e formulari.

Il grido che ci accompagna per tutto il film è il nome del protagonista. Io, Daniel Blake. Una persona, prima ancora che un lavoratore o un malato. Non un numero, non un problema, non un costo. Il film di Ken Loach è quanto di meglio si sia per ora visto sullo schermo di Piazza Grande, raccontando una vicenda diventata oggi drammaticamente normale e diffusa, quella di un uomo dalla grande dignità che viene calpestata dal sistema economico e da quello previdenziale. Una storia “semplice” – ma dall’immensa forza narrativa – che confronta gli spettatori con un fenomeno che sta oggi colpendo milioni di lavoratori in tutta Europa.

Scritto dallo sceneggiatore Paul Laverty, la pellicola denuncia le perversioni di quello che a tutti gli effetti è uno Stato assassino. Un’espressione forte, che a molti farà storcere il naso, ma è il meccanismo che Ken Loach ha il coraggio di denunciare nel film. Già nella schermata nera di apertura, sentiamo il dialogo tra Daniel – un bravissimo Dave Johns, che prima di essere attore ha fatto l’operaio – e una funzionaria “professionista della salute”, che pone delle domande al limite dell’assurdo a un uomo colpito da problemi cardiaci per giudicarne l’inabilità lavorativa, a fronte di medici e terapisti che hanno già emesso un chiaro verdetto. Conversazione in cui traspare tutta la perversione e l’insensatezza di un sistema che condurrà il protagonista e gli spettatori a quello che, sin dall’inizio, è l’inesorabile epilogo.

Daniel durante una visita all’ufficio di collocamento conosce Katie, madre sola di due figli piccoli trasferitasi da Londra in un appartamento disastrato di Newcastle, di cui diventerà amico e con cui cercheranno di sostenersi a vicenda nelle quotidiane difficoltà. Ken Loach in questo film sceglie di mostrare il senso di solidarietà che le persone in gravi difficoltà possono comunque mantenere. Un meccanismo non scontato e che non sempre si avvera, come storicamente mostrato dai conflitti sociali tra poveri nei periodi di disagio economico e politico: tuttavia la scelta del regista è legittima, e mostra come sia il sistema a distruggere le vite di queste persone, riconoscendo una natura umana generosa e altruista senza cui costruire un’alternativa sarebbe impensabile. Solidarietà che viene anche da una funzionaria del perverso e kafkiano sistema previdenziale, che prova a uscire dalle regole della macchina burocratica per aiutarlo a trovare benessere (significato letterale di welfare), subendo le minacce della responsabile per non essersi attenuta alle regole e per il rischio di «creare un precedente».

Il film è pieno di scene toccanti ed emotivamente forti, ma sempre rispettoso e senza aggiungere drammi ulteriori oltre la vicenda narrata. Una delle scene più forti si svolge all’interno di un banco alimentare, fenomeno presente e sempre più utilizzato dalle persone anche in un Ticino e una Svizzera (che tanto si fregiano del loro sistema previdenziale) in cui a parole la povertà è sempre qualcosa di relativo e inesistente. Sintomo di uno Stato (sociale) che delega indirettamente alle associazioni caritatevoli, siano esse di stampo laico o cattolico, il compito di rimediare alle proprie responsabilità mancate. Un welfare nato sia come strumento di ripresa economica al fine di non perdere completamente consumi e forza lavoro, sia come metodo per avere un esercito industriale di riserva indebolendo il potere contrattuale dei lavoratori, sia come modo per aumentare il benessere sociale in modo da indebolire le spinte rivoluzionarie e gli sguardi che al tempo volgevano a Est.

Uno stato sociale che oggi si trascina, svuotato di senso e sempre più privatizzato e succube di logiche e linguaggi modernisti (ridicola e grottesca la retorica attorno al curriculum vitae per l’ufficio di collocamento, con i corsi con la retorica americana del self made man), solo per non far implodere una società sempre più allo sbando.

In tutto ciò il film ha il merito di raccontare storie che spesso rimangono sotto la superficie, emergendo sporadicamente in qualche articolo di giornale scritto per riempire con voce scandalistica le pagine di quotidiani. Storie che leggendo i rapporti ufficiali non emergono, e la cui responsabilità viene sempre data ai lavoratori (è loro la colpa di rimanere disoccupati) o alla congiuntura economica (il lavoro è entità che appare e scompare senza particolari ragioni). Quasi come se la macchina burocratica avesse assunto vita e personalità proprie, non dovendo più rendere conto né ai cittadini, né alla politica. Trasmettendo l’idea che l’antica arte del governo «della città» sia qualcosa di inutile e che non può assumersi la responsabilità della proprie scelte: uno dei tanti tasselli del mosaico che spiega la costante e crescente disaffezione dalla politica.

Daniel Blake con Katie in una scena di "I, Daniel Blake"
Daniel Blake con Katie in una scena di “I, Daniel Blake”

Ken Loach denuncia infine come la flessibilità che il sistema sociale e previdenziale dovrebbe avere di fronte a generazioni diverse, con difficoltà, risorse e bisogni personali estremamente variegati, sia inesistente. Ma che non per questo non venga richiesta e invocata come un dogma alle persone che cercano lavoro, siano esse giovani alle prime armi o disoccupati in attesa, indirizzandole tramite procedure per loro inaccessibili verso lavori impraticabili, e sanzionandoli con ammende che gettano nella disperazione e conducono a scelte e conseguenze estreme.

Simone Romeo

Simone Romeo, classe 1993, è pedagogista e dottorando di ricerca in "Educazione nella società contemporanea" presso l'Università di Milano-Bicocca. Già consigliere comunale a Locarno per il Partito Comunista, collabora da diversi anni con sinistra.ch.