Vilnius
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Vilnius, Lituania, senza riconoscenza per il tempo sovietico

Dall’aeroporto di Vilnius, in stile monumentale neoclassico sovietico, con tanto di statue di aviatori e festosa gioventù socialista, il bus si dirige verso il centro attraversando una zona boscosa, intervallata, oltre che dai soliti centri commerciali a testimonianza dell’arrivo dell’Occidente, da antiche dacie di legno e di mattoni e, più nascoste rispetto alla strada principale, da moderne villette post-sovietiche edificate della nuova borghesia affermatasi in quest’ultimo quarto di secolo.

Il nuovo
Il nuovo

Dopo Tallin nel 1992 e Riga per il Dien Pabiedi, Giorno della Vittoria sul nazifascismo, festeggiato da me insieme alla comunità russa della Lettonia nel 2009, arrivo nella terza capitale baltica, la sola non in riva al mare, e anche qui ricevo – come a Riga – qualche insulto per portare sulla giacca una bandierina rossa con falce e martello. Qualcuno azzarda pure che qui sia vietato portare simboli socialisti, forse, ma, rispondo che, come loro, sono cittadino europeo e mi reputo libero di indossare qualsiasi simbolo antifascista, essendo l’Europa odierna nata dalla Resistenza e dalla campagna di Liberazione condotta dall’Armata Rossa. In Lituania tuttavia mi pare che l’anticomunismo in chiave nazionalistica sia malauguratamente debordante, il diffuso odio per l’Unione Sovietica si unisce al disinteresse per l’Unione Europea, di cui in ogni caso i lituani sono parte, con tanto di euro. In giro oltre alle bandiere nazionali si vedono infatti solo bandiere degli Stati Uniti, d’altronde i lituani sono entrati prima nella NATO e poi nell’Unione Europea, a segno del ritardo culturale e politico degli eurocrati e dalla bramosia geopolitica degli statunitensi, sempre pronti a generosi sostegni e finanziamenti in chiave antirussa e anticinese.

Il centro storico di Vilnius è piccolo, fatto di stradine fitte e larghe a sufficienza per permettere un tempo ai carretti di passare rumorosamente sull’acciottolato.
Le chiese cattoliche sono tutte mastodontiche e poco attraenti. I fogli informativi che si trovano numerosi e poco letti sui tavoli d’ingresso mostrano maggior simpatia per il reazionario papa polacco del passato secolo, piuttosto che per l’attuale pontefice argentino.
In un mercato tenuto da contadine che parlano russo, con pochi banconi e ancor meno prodotti, compero qualche biscotto e alcuni lamponi, a dimostrazione di un diverso tempo di maturazione rispetto all’Europa mediterranea e di un’estate tardiva, che tuttavia sta già lasciando il campo al vento e alle foglie d’autunno.

Se Tallin e Riga sono state per secoli parte della Livonia, la Lituania ha formato un granducato confederato al regno di Polonia, di cui ha seguito il destino fino alla scomparsa di entrambe a fine ‘700. Un ruolo nell’affermazione di questa nazione a livello europeo lo ha avuto una milanese nata a Vigevano, Bona Sforza, colta e intelligente, la quale a ventiquattro anni, ai primi del ‘500, diventa consorte di re Sigismondo, già cinquantenne. Bona è abile nel tessere relazioni e alleanze internazionali e darà al regno polacco un precipuo ruolo antiasburgico in quel tempo di guerre di potere e di religione, con studiati matrimoni per le sue numerose figlie. Dopo di lei i polacco – lituani giocheranno il ruolo dei cattolici antiprotestanti e antiortodossi, per essere alla fine sopraffatti dai prussiani protestanti e dai russi ortodossi.

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Una delle vie principali

Distruzioni, invasioni e ricostruzioni hanno disperso molto del fascino del centro cittadino, in cui oggi prevale la pesantezza di palazzi sette – ottocenteschi. Come le cattoliche, anche le chiese ortodosse sono prevalentemente settecentesche, con iconostasi che raccontano la fede, ma non la bellezza di una tradizione millenaria, fungendo in ogni caso da luoghi di riaffermazione identitaria di una minoranza – quella russa – qui meno significativa rispetto ad Estonia e Lettonia, ma sempre importante e in lotta per vedere riconosciuti diritti linguistici e culturali negati con arroganza e leggerezza da un potere sordo alle (tiepide) raccomandazioni europee e impegnato in una smaccata ed evidente discriminazione. La domenica le chiese cattoliche, molto frequentate, principalmente da anziani, ma anche da famiglie e da giovani, rivelano il clima conservatore della chiesa locale, che predilige processioni con baldacchini, sontuosi paramenti, stendardi a carattere religioso e cuori sanguinanti portati su cuscini ricamati, per fortuna entrambi di pizzo. Nelle chiese ortodosse si organizzano invece distribuzioni gratuite di indumenti usati, a sostegno di fedeli esclusi dal liberismo dominante e solo all’apparenza trionfante.

Non manca in centro un monumento ad Adomas Mickevičius, che poi tutti conoscono come Adam Mickiewicz, poeta romantico, bielorusso per nascita, figlio di nobili lituani decaduti, polacco per lingua, universale per scelta culturale, tanto da essere il primo traduttore in polacco di Dante e Petrarca e a coltivare, nonostante lo spirito indipendentista, una sincera amicizia con Aleksandr Puškin.

L'ultima falce sopravvissuta
L’ultima falce sopravvissuta

Su tutti i palazzi i segni e i simboli sovietici e socialisti sono stati rimossi con doviziosa attenzione, solo una falce, senza martello, ma con copiose spighe di grano è riuscita a resistere all’operazione volta a cancellare sessant’anni di storia lituana.
Il lituano Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij, fondatore dell’Unione dei Lavoratori della Lituania, prima organizzazione marxista del paese, unitasi poi nello SDKPiL, ovvero il Partito Socialdemocratico del Regno di Polonia e Lituania, guidato dalla sua amica Rosa Luxemburg è qui totalmente dimenticato. Nessuna memoria del suo contributo alla storia dei lavoratori lituani, molta denigrazione per aver promosso il sistema di sicurezza del paese dei Soviet con la fondazione della polizia politica.

La grande comunità ebraica cittadina, dopo la fine della presenza polacca iniziata nel ‘19, partecipa con entusiasmo al potere sovietico al suo arrivo nel ’39, ma nel ’41, solo due anni dopo, subisce l’occupazione nazista e lo sterminio. Dei 220mila ebrei lituani, 206mila, donne, vecchi e bambini compresi, vengono fucilati nei boschi e gettati in fosse comuni dai collaborazionisti locali dei nazisti, il tutto in pochi mesi.  A sera, tra gli antichi, alti tetti, assolutamente nordici, seppure neppure troppo spioventi, mentre il vento porta qua e là gli sbuffi dei camini, per un riscaldamento già necessario anche ai primi di ottobre, pare di vedere, ma è solo un’impressione dovuta al turbinio dei refoli oltre la finestra, un ebreo volante col suo violino. D’altronde Vitebsk, città natale di Chagall, non è a molti chilometri da qui. Soltanto il volto dell’ebreo sembra differente, molto più triste.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.

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