Credo con estrema sincerità, senza retorica, nelle potenzialità delle arti.
Schiarendo la realtà dalle velature fenomeniche che l’avvolgono e, insieme, fornendo una lettura critico-dialettica dei processi storici, esse rappresentano, per i loro fruitori, un formidabile strumento per comprendere, e quindi agire consapevolmente. «Decifrare la realtà a fini di orientamento pratico», con Sanguineti.
E credo con altrettanta sincerità, in linea a ciò, alla specificità del ruolo dell’artista. Profondamente immerso nel suo tempo, egli elabora esteticamente – e, anche, volente o nolente, ideologicamente – una propria impressione intellettuale a proposito di un dato aspetto del reale.
La sua specificità risiede, essenzialmente, nella capacità di dare vita ad un’opera d’arte fruibile, consumabile secondo i parametri storicamente vigenti – oggi, in Europa, per fare un esempio, una pellicola dalla durata di quattro ore affronterebbe, tendenzialmente, strutturali limiti di diffusione – senza che tale premura incida negativamente sulla qualità del contenuto analitico veicolato. Ci deve essere, in tal senso, compatibilità e compenetrazione, tra il messaggio e il suo contenitore formale. È saper dare vita a quest’armonia che fa l’artista.
Al video-documentario “I sogni del lago salato” (2015, Prima mondiale al Festival del Film di Locarno), di Andrea Segre, sono seguiti fertili scambi d’idee; i paragrafi introduttivi soprastanti sistematizzano i presupposti delle argomentazioni portate da chi scrive.
Segre è coraggioso poiché l’esercizio dell’analogia lo è. Il regista italiano traccia una linea di paragone tra il sostenuto processo di sviluppo economico attualmente in atto in Kazakistan e quello affermatosi nell’Italia degli anni ’60 (con uno sguardo particolare – correttamente – sul Mezzogiorno).
Il lavoro del regista italiano, però, non permette di cogliere le caratteristiche peculiari delle due dinamiche di crescita: certamente, esse hanno diversi punti di contatto, ma, nel contempo, possiedono una propria specificità. Ciò è importante da sottolineare soprattutto perché un’analogia fruttuosa presuppone in primis un’adeguata significazione degli elementi confrontati.
Quali istanze hanno ideato e diretto la crescita? E con quali finalità, prospettive strategiche? E secondo gli interessi di quali settori della società? Il capitale privato, da una parte, che ruolo ha giocato? E, dall’altra, a quale livello s’è assestato il protagonismo statuale? E come si presenta il quadro delle implicazioni – positive e negative – dell’accesso alla modernità?
Per rispondere adeguatamente a queste domande – fondamentali per individuare differenze e punti di contatto tra i due processi -, il documentario, pur contenendo utili e interessanti stimoli all’approfondimento, offre solo alcuni indizi, assestandosi così alla superficie degli argomenti considerati.
E qui ritorno al ragionamento iniziale.
Da una parte, ritengo che l’interpretazione dello spettatore – per essere costruttiva – debba svolgersi attorno a un prodotto artistico che possegga già un propria sostanza, un proprio profilo. Occorre, in tal senso, che l’artista posizioni la sua lettura a una determinata latitudine del vasto panorama dei significati.
Dall’altra, è possibile mantenere equilibrio, compenetrazione, tra frangente contenutistico ed esigenze formali. Credo, concretamente, che sia sostenibile soddisfare le questions di cui sopra, declinare, cioè, all’interno di un prodotto artistico spendibile, un’adeguata messe di elementi sostanziali, senza che ciò incida negativamente sulla spendibilità del prodotto artistico. Come detto inizialmente: è saper dare vita a quest’armonia che fa l’artista.
Rimarco questo aspetto poiché, nel caso concreto della pellicola cinematografica, si tende a tracciare un legame automatico tra il suo “riempimento” contenutistico e l’ampliarsi a dismisura della sua durata, con il deficit di fruibilità che ne conseguirebbe.
Il pericolo, ovviamente, c’è. Ma, appunto, è un’arte.
E, per restare nel campo dei video-documentari ospitati al Festival di Locarno 2015, un esempio di riuscita armonia tra contenuto e contenitore è “My Name is Gary” (2015), il lavoro di Blandine Huk e di Frédérik Cousseau su Gary (Indiana), la «città fantasma» statunitense un tempo dinamica grazie ad un vivace settore siderurgico e oggi, invece, avvolta nel circolo vizioso d’una condizione post-industriale segnata dall’assenza di attività economiche trainanti.
Aris Della Fontana