La nozione di comunismo in Marx è costruita su quella di “bisogno”. Il comunismo è quella società nella quale ognuno riceverà secondo i suoi bisogni. Ovviamente tutti sanno che ci sono bisogni primari (mangiare, bere, vestirsi, abitare, accoppiarsi), bisogni secondari (mangiare, bere, vestirsi, abitare, accoppiarsi in modo confortevole e piacevole) e infine bisogni terziari (leggere un libro, andare in Madagascar a vedere le proscimmie, eccetera). Il comunismo non parte, come Rousseau, da un concetto naturalistico dei bisogni, ma da quello dei “bisogni ricchi”, che possono essere cioè soddisfatti sulla base dello sviluppo delle forze produttive e del “general intellect”. Ci sono, purtroppo, molti miserabilisti ascetici e invidiosi che si considerano erroneamente “marxisti”, ed è difficile far capire loro che la semplice “invidia per i ricchi” non è un fattore della coscienza comunista. Il comunismo è la società dei bisogni ricchi. Ma per parlare di “bisogni” è necessario rivolgersi agli antichi Greci. I Greci, e non solo Epicuro, si erano già occupati moltissimo dei bisogni, in modo generalmente non repressivo, come fecero poi i cristiani, noti autocastratori, mangiatori di cavallette e residenti su colonne. Il bisogno arricchisce l’uomo, purché l’uomo sia sempre il padrone. Tutto qui. Ma è un tutto qui che implica una rivoluzione mentale gigantesca. Il “desiderio” invece, proprio quello che gli strutturalisti e i neostrutturalisti(da Gilles Deleuze a Toni Negri) ritengono essere la fonte del comunismo, è proprio l’elemento riproduttore strutturale del consumo capitalistico. Il capitalismo vive di desideri, non di bisogni. I bisogni possono essere soddisfatti, ma in questo modo si avrebbe subito una crisi di sovrapproduzione e di sottoconsumo. I desideri invece sono infiniti, illimitati e indeterminati per loro stessa natura. E’ questo il segreto della produzione capitalistica, la sua nevrotica infinitezza. Psicologi heideggeriani come Umberto Galimberti lo capiscono vagamente, anche se hanno scelto l’interiorità all’ombra dell’ Inserto Donna de La Repubblica. I negriani invece non lo capiscono assolutamente, e continueranno a cercare la quadratura del cerchio nell’idea della rivoluzione astratta e del consumo capitalistico concreto. Ai suoi inizi, che definiremo protoborghesi, il potere capitalistico era patriarcale, in particolare verso le donne, i figli, i servitori ed i lavoranti. Essendo patriarcale, era ad un tempo paternalistico e repressivo. La psicoanalisi di Sigmund Freud è stata ad un tempo il punto più alto ed il coronamento finale di questa necessità protoborghese di far introiettare in modo autoritario le regole riproduttive del comportamento sociale patriarcale (teoria del Super-Io, eccetera). Ma solo gli inizi del capitalismo sono stati protoborghesi. Poi lo stesso capitalismo, a partire dalla produzione di massa fordista e poi con la personalizzazione del prodotto, ha dovuto “liberalizzare” la sua stessa morale. Una società dei consumi non può essere veramente repressiva. Il represso non consuma, o consuma poco. Il potere capitalistico, passata la prima fase protoborghese del paternalismo repressivo, diventa più flessibile. Chi ha soldi deve poter ormai comprare tutto. Dio è morto, e la sua morte non comporta assolutamente l’avvento dell’Oltreuomo, come credono i nicciani ingenui, ma l’avvento del Consumatore Indifferenziato. Se la morale protoborghese si basava sul potere patriarcale, la morale postborghese (e l’attuale capitalismo è postborghese, anche se i marxisti non se ne sono ancora accorti, e continuano a pigliarsela con un ormai inesistente “potere borghese”) non si basa più sul potere patriarcale, ma su di un self-service di consumi individuali facilitati da Internet. Il Sessantotto è stata una svolta storica cruciale di questo passaggio da una morale protoborghese, paternalistica e repressiva, ad una morale postborghese del consumo indifferenziato e liberalizzato.
Gian Piero Bernasconi, Presidente del Comitato Cantonale del Partito Comuninista