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Essere comunisti oggi: riscoprire le radici e studiarne le moderne applicazioni

Nell’odierna società globalizzata del XXI secolo definirsi, anche in una semplice conversazione tra amici, comunista può creare un senso di incredulità nell’ascoltatore. La caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica non solo hanno segnato la fine di una speranza per milioni di uomini, ma hanno anche inferto un duro colpo all’immagine di chiunque ancora aspiri a una trasformazione in senso socialista della società. A peggiorare questa situazione si sono in seguito aggiunti, soprattutto nei paesi dell’Europa occidentale, tranne qualche rara eccezione, persino tentativi disastrosi di una “rifondazione” dell’ideale comunista, che in verità hanno nascosto un puro e semplice liquidazionismo della gloriosa e anche complessa storia del movimento comunista novecentesco.

Partiamo dall’inizio, l’evento che senza ombra di dubbio segna la svolta all’interno del movimento operaio è la Rivoluzione Socialista d’Ottobre in Russia. Lenin rompe gli indugi e spezza “l’anello più debole” della catena imperialista. Le reazioni all’interno dei partiti socialisti, che riflettono le diverse impostazioni politiche, sono ovviamente discordanti. I socialisti riformisti, infatti, incapaci di comprendere a fondo le novità di questo avvenimento, a causa di un’interpretazione deterministica e meccanicistica della teoria marxista, arriveranno ad attaccare aspramente il potere bolscevico, come nei casi più famosi dei “rinnegati” Turati e Kautsky.

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Fabio Scolari, autore dell’articolo

Altre due date che devono necessariamente essere ricordate sono il 1919, anno di fondazione della III Internazionale e il 1921 quando, ad opera del dirigente russo, furono fissate in 21 punti le condizioni per aderire alla nuova organizzazione rivoluzionaria (tra le più conosciute vi sono il cambio di nome e l’espulsione dei riformisti). Quest’ultimo episodio si carica di un significato ancor più profondo proprio perché dall’accettazione incondizionata di tale documento si ebbero le scissioni delle minoranze comuniste dal movimento socialista e la costituzione dei primi Partiti Comunisti sul modello bolscevico (ad esclusione della KPD tedesca e del MKP ungherese).

La dottrina e l’interpretazione leninista, oltre che a tradurre in prassi vivente il pensiero marxiano, certifica e rende irreversibile la rottura tra le due aree del movimento operaio, già presentatesi nelle conferenze internazionali di Kienthal e Zimmerwald per quanto riguardava le strategie di lotta negli anni della Prima Guerra Mondiale, da un lato i socialisti riformisti e massimalisti e dall’altro i comunisti.

A questo punto va precisato in modo chiaro, per quanto crediamo che già quanto in sintesi riportato sopra lo dimostri, che al contrario di alcuni incapaci dirigenti politici attuali, autocelebratisi quali portatori di nuove dottrine rivoluzionarie e che con una furia quasi iconoclasta hanno attaccato e cancellato l’opera di Lenin come ispirazione teorica delle loro azioni, che per definirsi comunisti oggi non si possa non partire dallo studio critico e approfondito dell’opera lasciataci in eredità dal leader bolscevico e da tutti i suoi interpreti successivi.

Ovviamente è necessario contestualizzare le sue proposte e le sue analisi, ma – e non è purtroppo mai superfluo specificarlo – evitando di trasformarle in vuote formule applicabili in qualsiasi epoca facendo astrazione del contesto storico. Tale premessa risulta necessaria da un lato per combattere il revisionismo e l’eclettismo imperante nel contemporaneo movimento progressista e che riteniamo essere la principale causa della situazione disastrosa della sinistra occidentale. Soltanto uno sprovveduto non si accorgerebbe come l’abbandono del leninismo, inteso come evoluzione del marxismo all’epoca dell’imperialismo, abbia coinciso con uno scivolamento socialdemocratico di molte formazioni politiche che esibiscono sui loro simboli la falce e il martello. Dall’altro però ci aiuta a restituire al militante comunista odierno le armi per interpretare in modo corretto il mondo e di conseguenza sostenere qualsiasi genere di lotta politica.

Una volta riappropriatici delle nostre radici teoriche e ideologiche, possiamo rispondere a un’altra questione, ben più importante della polemica ideologica, che generalmente crea imbarazzo ad alcuni “comunisti” occidentali del XXI secolo. Dove le nostre idee stanno trovando attuazione? Dove stanno producendo risultati concreti?

L’accusa infantile, spacciata ormai come dato di fatto, ruota intorno “all’evidenza” che ormai Marx, Lenin, Gramsci e tutte le personalità appartenenti alla nostra storia siano state sepolte dalle macerie del Muro e dal trionfo del sistema capitalistico. Per controbattere a tali “certezze” vogliamo partire da una citazione estratta dal “Rapporto presentato al III Congresso dell’Internazionale comunista” (1921) preparato da Lenin stesso, e nel quale leggiamo: “ci troviamo qui di fronte al problema più difficile. L’imposta in natura significa, s’intende, libertà di commercio. Il contadino, dopo aver pagato l’imposta in natura, ha il diritto di scambiare liberamente quel che gli rimane del suo grano. Questa libertà di scambio significa libertà per il capitalismo. Noi lo diciamo francamente e lo sottolineiamo. Non lo nascondiamo affatto. Le nostre cose andrebbero male se pensassimo di nasconderlo. Libertà di commercio significa libertà per il capitalismo, ma significa al tempo stesso una nuova forma di capitalismo. Vale a dire che noi, in una certa misura, ricreiamo il capitalismo. E lo facciamo del tutto apertamente. Si tratta del capitalismo di Stato. Ma capitalismo di Stato in una società in cui il potere appartiene al capitale, e capitalismo di Stato in uno Stato proletario sono due concetti diversi. In uno Stato capitalistico, capitalismo di Stato significa capitalismo riconosciuto e controllato dallo Stato a vantaggio della borghesia e contro il proletariato. Nello Stato proletario, vien fatta la stessa cosa a vantaggio della classe operaia e allo scopo di resistere alla borghesia ancora forte e di lottare contro di essa. È ovvio che dovremo cedere molte cose alla borghesia e al capitale straniero. Pur non snazionalizzando nulla, cederemo ai capitalisti stranieri miniere, boschi, pozzi petroliferi, per ottenere in cambio prodotti industriali, macchine, ecc, per ricostruire in tal modo la nostra industria”.

Il momento storico in cui queste parole furono scritte e pronunciate è quello della NEP (Nuova Politica Economica): chiusa la stagione della guerra civile e del comunismo di guerra, Lenin e il giovane governo bolscevico decidono una parziale liberalizzazione nella produzione e negli scambi per risollevare l’economia del Paese. Il ruolo che il mercato potrebbe rivestire nello sviluppo delle forze produttive inizia ad essere indagato con maggiore profondità. Il filo di questa analisi per vari motivi interni e internazionali sarà interrotto negli anni successivi, quando sotto la guida di Stalin le scelte del gruppo dirigente sovietico si orienteranno verso una collettivizzazione e una industrializzazione a tappe forzate, nonché una statalizzazione integrale dei mezzi di produzione.

Jiang Zemin e Fidel Castro
Jiang Zemin e Fidel Castro

La storia ci ha però abituato a colpi di scena spettacolari: dopo la morte di Mao e la caduta della “Banda dei quattro”, Deng Xiaoping in una Cina arretrata e contadina iniziò a promuovere una serie di riforme e aperture destinate a trasformare la vita di milioni di persone. I suoi successori hanno continuato a seguire la strada da lui tracciata e hanno in un certo senso rispolverato e arricchito le ultime analisi che il capo bolscevico aveva, a causa della sua morte avvenuta tre anni dopo, potuto solo abbozzare sommariamente. Jiang Zemin, dalla tribuna del XV Congresso del Partito Comunista Cinese nel 1997, forniva in poche parole un quadro completo della svolta intrapresa nel paese asiatico: “costruire un’economia socialista con caratteristiche cinesi significa sviluppare un’economia di mercato in condizioni socialiste e liberare e sviluppare costantemente le forze produttive. Per essere più precisi, dobbiamo mantenere e perfezionare il sistema economico fondamentale, in cui la proprietà pubblica socialista rimane dominante e differenti tipi di proprietà si sviluppano l’uno accanto all’altro. Dobbiamo mantenere e perfezionare l’economia socialista di mercato in modo che il mercato giochi un ruolo essenziale nell’allocazione delle risorse sotto il controllo macroeconomico dello stato”.

A riprova dei dilemmi davanti ai quali si trovarono e si trovano tutt’ora i dirigenti cinesi dobbiamo necessariamente richiamare un acuto editoriale di Palmiro Togliatti dal titolo “Viaggio in Jugoslavia” (1964), nel quale egli analizza le particolarità di questo giovane paese socialista: “Nella economia, la originalità sta, da un lato, nella applicazione del principio democratico a tutta la nuova struttura economica, attraverso il sistema dell’autogestione operaia; dall’altro lato in un metodo di pianificazione che non elimina il mercato e le sue leggi, né nei rapporti interni né nei rapporti internazionali, dando luogo a una realtà complessa, che deve essere oggetto di attento studio”.

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Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer

Un altro spunto di riflessione, nella comprensione della strategia che il Partito Comunista Cinese ha elaborato e applicato per raggiungere una moderna società socialista, ci è offerto da un altro dirigente comunista italiano Enrico Berlinguer, il quale rispondeva a Giampaolo Pansa: “Primo: al contrario di quel che prevedevano i classici del marxismo, è continuato ad esistere un tessuto di media e piccola impresa industriale, artigianale, commerciale, contadina che, specie in Italia, si è rivelato importantissimo per lo sviluppo e l’occupazione. Secondo: nazionalizzazioni totali (come nella Cecoslovacchia degli anni ’50 dove è stato statalizzato tutto, persino i barbieri) si sono rivelate dannose. Terzo. Da noi il settore pubblico è già molto esteso. Dunque, forme miste di impresa pubblica e privata possono esistere anche in una società socialista. Anzi, in un paese industrializzato come l’Italia è conveniente da tutti i punti di vista, e non solo da quello economico, mantenere l’impresa privata. L’elemento unificante è dato dalla programmazione, che stabilisce il quadro di certezze entro le quali operano sia il settore privato che quello pubblico”.

Questi ultimi due estratti dimostrano come gli attuali comunisti cinesi, se da un lato non abbiano inventato nulla di nuovo con il termine “socialismo di mercato”, ma anzi hanno in un certo senso riassunto in una formula decenni di analisi ed esperienze di molti pensatori comunisti, dall’altro è a loro che è toccato forse il compito più arduo, ossia quello di ridiscutere larga parte di quelle che sono state considerate per decenni le certezze incrollabili del marxismo-leninismo e che ne hanno contraddistinto lo sviluppo ma anche la stagnazione e il declino dei paesi che vi facevano riferimento. Vale qui la pena ricordare come la decisione delle autorità della ex-Germania dell’Est di abolire definitivamente nel giugno 1971 ogni forma di impresa privata (liquidando circa 11’000 aziende vitali) ha portato un grave danno all’economia nazionale dell’allora DDR.

Troviamo quindi delle forti analogie tra il comportamento dei socialisti riformisti dell’inizio del ‘900, i quali voltarono frettolosamente le spalle alla Rivoluzione d’Ottobre, e quello di chi oggi fra alcuni comunisti contemporanei (o almeno di chi si professa ancora tale) non riuscendo a comprendere la semplice lezione magistralmente sintetizzata dal prof. Domenico Losurdo, liquida l’esperienza cinese come un ritorno al sistema capitalistico: “la lotta contro l’egemonismo (americano) si svolge anche sul piano dello sviluppo economico e tecnologico. E’ un punto che, purtroppo, la sinistra occidentale, non sempre riesce a comprendere. Occorre allora ribadirlo con forza: rivoluzionaria non è soltanto la lunga lotta con cui il popolo cinese ha posto fine al secolo delle umiliazioni e ha fondato la Repubblica Popolare; rivoluzionaria non è soltanto l’edificazione economica e sociale con cui il Partito comunista cinese ha liberato dalla fame centinaia di milioni di uomini; anche la lotta per rompere il monopolio imperialista della tecnologia è una lotta rivoluzionaria”.

In conclusione, le scelte coraggiose che, negli ultimi 30 anni, hanno dovuto compiere le varie generazioni di politici comunisti cinesi – e che oggi sono studiate e in parte anche riprese dai partiti comunista al governo da Cuba al Vietnam, sono anche dovute all’esaurirsi delle possibilità di replica del “sistema sovietico”, che imbrigliato nelle sue contraddizioni finì per crollare su stesso, e per questo dalle necessità di seguire vie nuove mai esplorate per adattare il sistema socialista alla rispettiva realtà nazionale. Potremmo forse dire che l’esistenza della Cina popolare dimostra la veridicità di una regola generale: la realtà si presenta come qualcosa di estremamente complesso e ricco di contraddizioni, un processo di radicale trasformazione deve essere accompagnato oltre che da un’analisi dialettica anche da una tattica politica estremamente flessibile, evitando quindi posizioni dogmatiche e univoche, purché chiara sia la prospettiva strategica che si intende perseguire e altrettanto netta sia la preparazione politico-ideologica dei quadri del Partito.

Fabio Scolari

Fabio Scolari, classe 1995, dopo aver conseguito la maturità liceale, studia attualmente sociologia a Milano. Oltre a Sinistra.ch, collabora anche alla redazione del mensile “Voci del Naviglio”. E’ membro del direttivo dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) di Trezzano.