L’iniziativa popolare federale dell’Unione Democratica di Centro (UDC) relativa alla cosiddetta “immigrazione di massa“, approvata dalla maggioranza dei cittadini lo scorso 9 febbraio, non può che far sorgere una domanda: com’è possibile che una parte della borghesia nostrana abbia promosso una misura tanto protezionista e sciovinista? Non si può infatti non considerare che l’Europa rappresenta il 60% delle esportazioni elvetiche, le quali corrispondono a loro volta al 50% circa del PIL svizzero. La messa in atto dei contingentamenti dei lavoratori stranieri richiesti dall’UDC, porterà forzatamente a dover ridiscutere gli accordi bilaterali, mettendo a rischio l’accesso a un mercato che garantisce l’esistenza di buona parte del mercato del lavoro svizzero, delle collaborazioni con altri paesi sulla ricerca – l’unica in grado di garantirci quell’alto valore aggiunto necessario a competere a livello internazionale e a permettere alla Svizzera di inserirsi virtuosamente nella costruzione di quel mondo multipolare che sempre più sta emergendo dalla crisi – su altri settori strategici, e quindi al benessere dell’economia del Paese. Apparentemente un uomo d’affari come Christoph Blocher, principale finanziatore della campagna UDC, imprenditore industriale tra i più grossi in Svizzera e uomo forte della lobby del settore finanziario, dovrebbe – di fronte alla possibilità di una chiusura della libera circolazione delle persone – preoccuparsi per il suo borsellino. Non va dimenticato che l’iniziativa in questione ha fatto presa sulla popolazione perché ha dato delle risposte (sbagliate) a dei problemi concreti, legati al mondo del lavoro: anziché agire a monte, ovvero sulla libera circolazione dei capitali e contro lo sfruttamento e la divisione dei lavoratori, si è voluto prendere di mira la libera circolazione delle persone, la quale non è un problema in sé, ma lo diventa semmai perché subordinata alle necessità del capitale. Molto più lungimiranti sarebbero misure quali l’obbligatorietà di Contratti Collettivi di Lavoro in ogni settore, oggi sicuramente in minoranza rispetto ai cosiddetti “deserti sindacali“; un salario minimo garantito, formulato meglio rispetto a quello dell’iniziativa dell’Unione Sindacale Svizzera su cui saremo chiamati a votare il prossimo 18 maggio; e dei controlli adeguati verso il rispetto delle norme legate al diritto del lavoro, oggi inesistenti. Considerando il rischio verso cui sono spinte le realtà imprenditoriali di alcuni pezzi grossi dell’UDC, non si può escludere il fatto che l’iniziativa sull’immigrazione sia stata volutamente preparata per fare in modo che non possa entrare in vigore, se non in maniera tanto sfumata da renderla vana. Ciò non può però farci sorridere, in quanto si permetterebbe all’UDC – e a coloro che hanno attivamente sostenuto l’iniziativa, si pensi al coordinatore de I Verdi Sergio Savoia, oggi alla disperata ricerca di un nuovo elettorato – di giocare la carta dell’anti-politica. L’UDC potrà attaccare il Consiglio Federale (CF) e la classe politica, dicendo che essa è schiava di Bruxelles, che non fa gli interessi del popolo e che probabilmente mangia alle spalle dell’elettorato. Quello a cui i democentristi probabilmente mirano è la creazione di un clima “all’italiana“, nel quale il ruolo del Beppe Grillo rossocrociato diverrebbe facilmente spendibile nelle piazze. In ballo vi è insomma il tentativo dell’UDC di riconquistare il secondo seggio in CF, perso il 12 dicembre 2007 per via di un gioco di corridoio che ha visto quale vittima proprio Blocher. La presa di posizione del tribuno zurighese, messosi a disposizione per rientrare in CF e fare in modo che i contenuti dell’iniziativa vadano in porto, è un chiaro segnale. Il sentimento antipolitico non potrà che portare a un ingiustificato allontanamento da parte della popolazione verso la classe politica e le istituzioni, in quanto il minestrone con cui ci si potrebbe confrontare ometterebbe qualsiasi distinguo tra realtà politiche oggettivamente differenti. Certamente il consociativismo partitocratico porta alla lottizzazione, di cui possono essere accusati i partiti di governo – fra cui l’UDC – ma non certo le poche realtà d’opposizione esistenti in Svizzera, tra cui il Partito Comunista. Anche sul tema degli accordi bilaterali non si può generalizzare, in quanto – all’interno, ad esempio, della sinistra – si deve distinguere tra l’europeismo cieco del Partito Socialista e la posizione critica dei comunisti. L’anti-politica non potrà che portare a uno squadrismo culturale che, come l’Italia sta dimostrando, è anticamera del fascismo. A rendere il clima antipolitico potenzialmente ancora più accesso sarà il fatto che l’Unione Europea (UE) non potrà imporre nulla alla Svizzera, ma sarà invece il governo elvetico a edulcorare i contenuti dell’iniziativa che propone l’autarchia. All’UE poco importa se la Svizzera ha modificato la propria costituzione, in quanto nelle relazioni internazionali contano gli accordi bilaterali precedentemente stipulati. I primi segnali minacciosi di Bruxelles servono più che altro a mostrare agli euro-scettici dell’UE, in vista delle elezioni europee di maggio, quanto possa essere pericoloso voler cambiare le regole del gioco. Questo non vuol però certo dire che si possano prendere alla leggera certi segnali, in quanto la situazione – soprattutto considerando il decadente contesto economico – potrebbe diventare maggiormente conflittuale. Se quest’ultimo potenziale scenario non dovesse essere corretto, andremmo direttamente sulla via di versioni attualizzate della battaglia del grano di mussoliniana memoria, conseguenti alle difficoltà nel proseguire verso una produzione sempre più orientata all’alto valore aggiunto. Quando si dice tra l’incudine e il martello.
Mattia Tagliaferri, membro della segreteria del Partito Comunista