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Il Tribunale Penale Internazionale è incapace di garantire equilibrio

Le dichiarazioni di Ban Ki Moon a favore di un processo al presidente siriano Assad per “crimini contro l’umanità” rappresentano un ennesimo colpo alla minaccia di intervento armato contro Damasco, ma nello stesso tempo confermano l’atteggiamento pregiudiziale dell’oltranzismo occidentale che vuole per forza di cose Assad responsabile dell’uso di armi chimiche nella guerra che sta lacerando la Siria da oltre due anni. E’ come se Ban Ki Moon, dopo aver preso una posizione non prona alle pretese di Kerry, di Hollande e di una parte almeno della leadership israeliana, volesse ora ‘riequilibrare’ il suo standing rilanciando in chiave giuridica e ‘pacifica’ le accuse al governo di Damasco, col fine di destabilizzarlo comunque. Ma il riequilibrio è fasullo, e non solo perché Ban Ki Moon ha voluto – almeno stando al mainstream mediatico – pre-incriminare il presidente Assad senza nemmeno aver letto la relazione degli ispettori ONU, ma anche e soprattutto perché la sua richiesta presuppone l’esistenza di un organo di “giustizia internazionale” imparziale e equilibrato, che invece non esiste.

La Corte Penale Internazionale, in effetti, a cui secondo il segretario generale dovrebbe essere deferito il presidente siriano, è tutto tranne che un organismo capace di garantire equilibrio e terzietà: al contrario essa, nonostante sia stato salutata come un correttivo utile e necessario della pratica perversa dei Tribunali ad hoc degli anni Novanta che come tali violavano il principio di base di ogni diritto penale – nullum crimen sine lege – ha svolto nei fatti, in una struttura giudiziaria diversa – appunto un Tribunale permanente – un’attività giudiziaria di nuovo a senso unico: sempre contro i cosiddetti paesi canaglia , sempre dalla parte del peggiore Occidente, e in particolare dell’estremismo israeliano. Ieri nei Tribunali ad hoc i Serbi e Milosevic, gli Hutu e la loro leadership, o il presidente liberiano Charles Taylor. Oggi il Sudan, e la difesa del regime tutsi del Ruanda. Per non parlare del Libano e del processo Hariri; o dell’incredibile presa di posizione anti-Gheddafi già nelle prime settimane del conflitto del 2011, assunta dalla CPI sulla base – attenzione – non di una inchiesta sul terreno più volte richiesta dal leader libico, ma dei “rapporti” dei mass media internazionali, quelli che si inventavano ribelli uccisi dai soldati al posto di soldati uccisi dai ribelli; fosse comuni al posto di normali cimiteri; o manifestazioni tripoline a favore dei ‘liberatori’ sbarcati dal mare – mercenari inglesi e francesi, ribelli – sulla base di un video che riprendeva sì una manifestazione di massa, ma con bandiere indiane. Una dimostrazione a New Delhi insomma, e non a Tripoli.

Il dossier potrebbe allungarsi: se si riflette sulla quasi nulla attività della CPI nel Congo orientale invaso dalle truppe ruandesi e segnato da quello che persino Kofi Annan e Emma Bonino definirono alla fine degli anni Novanta come un genocidio – i massacri di decine di migliaia di profughi hutu o di autoctoni congolesi in una regione ricca di diamanti – e poi si confronta tale inazione-omissione con l’attivismo frenetico delle stessa Procura de l’Aja contro il legittimo governo di Khartum, non si può che concludere con un giudizio di sfiducia nella “giustizia internazionale”. L’attenzionamento contro il presidente sudanese Al Bashar è in particolare emblematico: prima l’invenzione di un genocidio descritto a tinte fosche dal sito del Museo dell’Olocausto di New York ma nei fatti inesistente, tanto è vero che persino il PG Moreno dovette accontentarsi di un mandato di cattura contro il capo di stato africano rubricato con l’imputazione di ‘crimini contro l’umanità’; poi il credito dato a un solo gruppo dei ribelli darfuriani, quello legato a Al Qaeda e sostenuto da Tel Aviv, senza riflettere sull’accettazione da parte del gruppo maggioritario della guerriglia antigovernativa, del Trattato di pace di Abuja (2006), controfirmato da tutte le principali potenze occidentali e da importanti organismi internazionali: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Olanda, Norvegia, le Nazioni Unite, l’Unione Africana …

Aveva forse torto Gheddafi ad accusare i magistrati dell’Aja, nell’agosto 2009, di parzialità e di pratiche eversive? Si potrebbe discutere su questa accusa, ma una cosa è certa: la Corte Penale Internazionale va ripensata nelle sue direttrici giurisprudenziali o almeno nella sua struttura, e se non lo si fa, non appare legittimo nessun suo intervento e atto giudiziario in quale sia conflitto nel mondo.

Primo, non dovrebbe poter essere deferito alla CPI nessun capo di stato di un paese che si trovi in conflitto con Stati che non hanno firmato l’accordo del 1998 istitutivo del Tribunale penale dell’Aja: nel caso di Assad, gli Stati Uniti e Israele. Sono proprio loro i nemici della Siria, anche e soprattutto Israele che continua a occupare dal 1967 il Golan, contro diritto internazionale e in violazione di decine di risoluzioni dell’ONU.

Ci si potrebbe poi porre l’interrogativo se non sia il caso di riflettere sulla deriva del diritto internazionale iniziata con la fine dell’equilibrio conflittuale Est-Ovest, e in particolare con la guerra d’Iraq e la crisi jugoslava dei primi anni Novanta: la no-fly zone anti-Bagdad e il diritto di autodecisione applicato a parti di uno Stato sovrano, hanno in effetti dato il via a una nuova prassi giuridico-internazionalista che attraverso l’invenzione di nuovi istituti – il principio di ingerenza umanitaria, la responsabilità di protezione dei civili, l’estensione della qualifica di ‘insorti’ a ribelli interni a un paese membro delle Nazioni Unite, con tutte le conseguenze in tema di riconoscimenti internazionali – nei fatti stravolgeva l’interpretazione della carta di San Francisco quale applicata dal 1945 al 1991. Una Carta che definiva e definisce il campo di applicazione del diritto internazionale solo nei rapporti tra Stati, e non anche nelle crisi interne agli Stati sovrani; e che delimitava e delimita l’applicazione del principio di autodecisione ai soli Stati coloniali, e non ai loro eredi indipendenti e sovrani, contro i quali le autodecisioni interne sono spesso se non sempre il cavallo di troia di nuove forme di colonialismo militare e economico.

Temi complessi, difficili, che forse qualche consesso internazionale (il Movimento dei non allineati?) potrebbe passare al vaglio critico: basti pensare, per comprendere la differenza tra ieri – l’età della decolonizzazione – e oggi – l’epoca della cosiddetta globalizzazione e dei micronazionalismi – al caso della Nigeria, Un paese scosso da una grave guerra civile dal 1967 al 1970, caratterizzata da un tentativo secessionista degli Ibo, milioni di nigeriani, la seconda megaetnia del paese, che non ebbe seguito e che non trovò alcuno spazio nelle risoluzioni dell’Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di quegli anni. Apparentemente una realpolitik cinica, quella della vecchia ONU: in realtà una prassi che favoriva la distensione e impediva il dilagare di guerre e processi di destrutturazioni degli Stati sovrani, quali oggi insistono nell’Iraq postbaathista, nel Curdistan di fatto ‘indipendente’, nel Sudan, nella Somalia. Tribalismi e microetnicismi che ove non delimitati nei binari della legittima richiesta di maggiore autonomia dentro lo Stato multietnico unitario, diventano funzionali al soggiogamento dei popoli dei paesi in cui insorgono, al nuovo colonialismo euro-americano. L’atteggiamento della Corte Penale Internazionale in Libia e in Sudan la dice lunga di quale sia invece la nuova ‘filosofia’ giuridica dei magistrati de L’Aja.

La cui selezione è un altro tema chiave da approfondire se si vuole garantire alla CPI un ruolo di effettiva terzietà e imparzialità di fronte ai conflitti internazionali. Sicuramente la procedura di nomina di giudici e procuratori del Tribunale penale internazionale è ben diversa da quella dei Tribunali ad hoc: chi decide la lista generale dei magistrati non è infatti il Consiglio di Sicurezza come nel caso dei Tribunali ad hoc, ma l’Assemblea generale, al cui interno ogni Stato può proporre due nomi.

Ma a parte un possibile eccesso di discrezionalità dello stesso Consiglio di Sicurezza nella selezione finale della rosa effettiva di giudici e procuratori della Corte, a un altro problema va fatta attenzione, e cioè alla necessità di non adottare solo il criterio di nazionalità nella proposizione dei candidati magistrati, ma anche quello di appartenenza religiosa.

Il motivo è semplice: viviamo in un’epoca storica in cui a differenza che nel passato, qualsiasi religione può facilmente raggiungere con gli strumenti mediatici e tecnologici a disposizione, ogni angolo del mondo. Il fenomeno delle migrazioni accresce la multireligiosità di molti stati, in particolare quelli europei. Questo vuol dire che in molti Stati del mondo, convivono o sono comunque presenti molto spesso musulmani, cristiani, ebrei. Cosa succede se applicando il solo criterio di nazionalità – peraltro leso talvolta dal fenomeno dei doppi passaporti – risulta nominata una maggioranza di magistrati musulmani, o cristiani o magari ebrei? Il presidente del Tribunale del Ruanda si chiama Mose, il procuratore che ha emesso il mandato di cattura ai danni di Charles Taylor si chiamava David Crane: sono ebrei o di origine ebraica. C’è qualche relazione tra questa loro appartenenza (etnico-)religiosa e la loro attività giudiziaria, tutta pro-tutsi quella del primo (il Ruanda di Kagame è ottimo alleato di Israele), e segnata geopoliticamente in modo simile quella del secondo? Questioni delicate, che a parlarne sembra debbano suscitare timori e perplessità, ma che invece andrebbero affrontate e risolte: dovrebbe far molta più paura e suscitare molta più preoccupazione che Assad – come già altri capi di stato non proni alla ‘legge’ dell’oltranzismo occidentale – finisca nella rete di questa Corte penale Internazionale.

Claudio Moffa, professore ordinario di Storia e Istituzioni dei Paesi dell’Africa e dell’Asia all’Università di Teramo

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