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Il frontaliere che ci ruba il lavoro

Mario è un giovane lavoratore italiano, più precisamente di Verbania, da pochi anni diplomatosi come muratore. Le sue prime esperienze lavorative nel Bel Paese non sono state facili: nell’Italia dilaniata dalla crisi economica – dove quelle che un tempo erano le numerose piccole-medie imprese a conduzione familiare stanno in gran parte chiudendo per fallimento – avere un posto di lavoro non è facile e quando lo si trova ci si imbatte in stipendi che spesso non raggiungono i mille Euro.

Nonostante la situazione problematica, Mario è riuscito ad acquisire esperienza sul campo, andando a lavorare un po’di qua e un po’di là, senza mai un contratto duraturo, vivendo di fatto da precario per un paio d’anni. Improvvisamente Mario si trova di fronte ad una nuova possibilità d’impiego presso una ditta ticinese che opera nel campo in cui ha sempre lavorato. Avendo sentito che nella Svizzera italiana i salari sono molto più alti e la precarietà è meno pressante rispetto alla Penisola, Mario non perde tempo e fissa un appuntamento con il proprietario della ditta in questione per un breve colloquio e, se tutto andrà bene, per la firma del contratto.

Il giovane che da lì a poco diventerà un frontaliere si appresta così a superare la dogana di Brissago con la felicità in volto e la consapevolezza del fatto che la sua vita potrebbe migliorare, e magari le enormi difficoltà riscontrate nel sbarcare il lunario potrebbero diventare un brutto ricordo. Al momento della presentazione del contratto, Mario si accorge però che il padrone ticinese gli sta sì proponendo di lavorare quale muratore, ma con la paga di una persona non diplomata: questo vuol dire che anziché guadagnare circa 5400 franchi al mese, lo stipendio sarà solamente di circa 4700 franchi mensili.

Mario è consapevole del fatto che quei 4700 franchi al mese sono molto più di un salario italiano, ma non capisce perché debba far finta di non essersi mai diplomato, e ricorda così al suo interlocutore che i colleghi svizzeri guadagnano almeno 700 franchi in più; il padrone spiega a Mario che lui i frontalieri li assume come se fossero dei manovali, così che possa risparmiare un po’ ma dando comunque la possibilità di guadagnare più di quanto succeda in Italia, concludendo dicendo che “o accetti le mie condizioni, o la porta è quella: tanto di gente come te ne trovo a bizzeffe”.

Mario, sentendosi messo alle strette e con la paura di perdere la possibilità di lavorare nel Canton Ticino, si rassegna e accetta queste condizioni di lavoro, seppur esse siano inique e al limite della legalità.

Come Mario, personaggio chiaramente d’invenzione, molti altri frontalieri italiani si trovano in questa situazione: posti tra l’incudine – rappresentata dal traballante stato italiano – e il martello, rappresentato invece dalla classe padronale, che spesso e volentieri non si fa troppi scrupoli nello sfruttare la manodopera straniera per arricchirsi maggiormente.

Nella maggioranza dei casi sono poi quegli stessi esponenti del padronato che assumono frontalieri a basso costo, a lanciare – in maniera del tutto ipocrita – campagne razziste come quella di “Bala i ratt”, basata sugli ormai noti cartelloni raffiguranti i tre topi (tra cui anche quello rappresentate i lavoratori frontalieri). Queste campagne non hanno altro scopo che quello di creare un sentimento d’odio nei confronti della manodopera frontaliera, così che in essi venga raffigurato il problema del mondo del lavoro, quando invece – come visto nelle righe soprastanti – il nocciolo della questione sta da un’altra parte. Ad avere il coltello dalla parte del manico è infatti il padronato e non il frontaliere, il quale non ruba il lavoro (chi darebbe, ad esempio, linfa alla nostra edilizia se non ci fossero i muratori italiani?) ma viene semmai sfruttato forse più di quanto non lo sia un lavoratore ticinese. In poche parole, “se i ratt ie dre balaa, l’è perché quaidün l’è dre sonaa”.

Mattia Tagliaferri, coordinatore del Sindacato Indipendente degli Studenti e Apprendisti (SISA)

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