Il Piccolo Teatro di Milano affonda le sue radici nella storia antifascista della città meneghina, dipanatasi dalla lotta antifascista fin dagli anni Venti e poi dalla Resistenza. Viene fondato come primo teatro stabile italiano il 14 maggio 1947 da Giorgio Strehler, Paolo Grassi e la sua consorte Nina Vinchi, infaticabile organizzatrice. Nasce da un’idea di Grassi, deciso a immaginare il teatro come servizio pubblico: di questo scrive in un articolo per “L’Avanti!” del 25 aprile 1946, nel giorno in cui l’organo di stampa dei socialisti italiani celebra il primo anniversario della vittoria della lotta partigiana. La proposta è apprezzata e promossa dal sindaco ambrosiano, l’avvocato socialista Antonio Greppi, che agli inizi del 1947 offre i piccoli spazi del teatro dopolavoristico di via Rovello, utilizzato amatorialmente dagli impiegati dell’amministrazione comunale, ai due amici. L’anno precedente Strehler e Grassi avevano già messo in scena Maksim Gorkij, al quale non negano un affettuoso richiamo nel nome “Piccolo”, che allude al moscovita Malij Teatr di piazza Teatral’naja.
Sono le pagine del “Politecnico” di Elio Vittorini a spiegare le linee d’azione del nuovo teatro: prezzi popolari, promozione culturale tra le masse lavoratrici, scelte di progetti artistici volti non a una evasione culturale, ma a un dichiarato impegno civile e politico. Così, proprio in quel maggio 1947, la storia di questo glorioso teatro si apre ancora una volta con il grande Maksim Gorkij e il suo “Albergo dei poveri”, tratto dal testo gorkiano “I bassifondi”, per altro riproposto dal teatro nella primavera 2024 in una pregevole rappresentazione allestita da Massimo Popolizio. Altro spettacolo fondamentale di quella stagione d’apertura è “Arlecchino servitore di due padroni” di Carlo Goldoni (allora con Marcello Moretti nella parte del protagonista), la cui versione strehleriana è stata capace di offrire fama internazionale al Piccolo, portandone interpreti e allestimento nel mondo. È ancora nell’autunno del 2024 che va in scena al Piccolo una riuscita edizione con Enrico Bonavera nella parte di Arlecchino, degno erede del suo maestro Ferruccio Soleri, per mezzo secolo nella parte dello scaltro servitore. Con ragione il regista Stefano de Luca sottolinea quanto giocare teatralmente con candele e merletti in un tempo di ricerca di avveniristiche soluzioni registiche ipertecnologiche sia non solo divertente, ma anche un modo concreto per riportare il teatro alla sua essenza.
Un impegno nel solco della storia del Piccolo, il quale negli anni ‘50 e in quelli successivi fa conoscere in Italia Bertolt Brecht, il grande regista e autore comunista, fino ad allora noto negli ambienti militanti, così come le rappresentazioni intelligentemente moderne di William Shakespeare.
L’attenzione per il teatro russo non è mai venuta meno, confermata dalla geniale e al contempo un po’ folle idea di promuovere il 16 novembre 2024 una “Maratona Progetto Čechov”, presentando in una sola giornata, dalla mattina alla sera, tre opere fondamentali del grande autore russo per la regia di Leonardo Lidi e la compagnia del Teatro Stabile dell’Umbria: “Il gabbiano” (1895), “Zio Vanja” (1896) e “Il giardino dei ciliegi” (1903). Il risultato è davvero apprezzabile per le doti delle attrici e degli attori e per il meritorio e riuscito lavoro di riduzione di opere tanto complesse a un atto unico di poco più di un’ora e mezza ciascuno. Quello che emerge con più nettezza e affettuosa prepotenza dal testo cechoviano è la necessità delle donne e degli uomini del suo tempo di confrontarsi, di vivere insieme, in relazione, quindi assaporando tutte le differenti dinamiche sociali: l’amore, le liti, i pregiudizi, le paure; prismi emozionali che declinano la vita, mai comunque separata dall’amore, motore sempre estremo per passioni che consumano a prescindere dall’essere o non essere corrisposte. Certo ci sono molti elementi russi del tempo: la campagna, i divari tra le classi, la necessità di un riscatto, che ne “Il giardino dei ciliegi” si intravede anche come politico. Tuttavia la vera alterità con il nostro tempo è nel modo di vivere: oggi ci confrontiamo prima di tutto con noi stessi, ripiegati in una centralità estremistica del nostro essere come alfa e omega di tutto, un tutto mediato dalla tecnologia; allora ci si confrontava molto più autenticamente con gli altri, alla ricerca del coraggio di parlare guardandoli negli occhi.