La Repubblica Islamica dell’Iran è una delle culle della civiltà mondiale. Eppure in Occidente ne abbiamo un’immagine stereotipata, costruita spesso ad arte, secondo le narrazioni statunitensi e israeliane. E così crediamo che il potere islamico sia in mano a fanatici, quando in realtà gli sciiti che governano l’Iran sono in conflitto con i terroristi sunniti (Al-Qaeda, ISIS, ecc.) inizialmente armati dagli USA. Siamo convinti che l’Iran sia il regno dell’oscurantismo culturale, poi scopri che nelle scuole di Tehran gli allievi leggono la “Divina Commedia” del (cristiano) Dante Alighieri. Siamo portati a credere che gli Aytollah esercitino una dittatura che impedisce ogni dibattito, poi però scopri che la trentina di partiti politici esistenti si scontrano e agiscono sulla base di programmi elettorali profondamente diversi sul piano economico, sociale e ideologico. Il giornalista italiano Diego Siragusa dice bene: “vogliamo lasciare agli iraniani il diritto di far evolvere i loro costumi e le loro consuetudini senza pregiudizi e ingerenze esterne? In occidente abbiamo il vizio, duro a morire, di guardare tutto ‘coi nostri occhi’, di voler uniformare tutto e di giudicare e condannare ciò che è diverso. Una malattia indotta dalla globalizzazione e dall’americanismo più perverso”.
E ora andiamo al Festival Internazionale del Film di Locarno (io mi ostino ancora a chiamarlo con il suo nome originale, in lingua italiana). Finiti i tempi in cui a Locarno si vedevano film da oltre cortina, in cui i comunisti potevano esprimersi quanto gli imperialisti, oggi prevale un’impostazione profondamente unilaterale, retta dal pensiero “liberal” e atlantista, con quella spruzzatina di “politicamente corretto” che serve ormai solo a omologare tutto in un pensiero unico che tollera il dibattito solo nei dettagli più insignificanti. Non c’è quindi da stupirsi che tutti i film relativi all’Iran in calendario a Locarno siano espressione della dissidenza che vive all’estero. Con questi film, squisitamente politici, non si capirà mai il vero Iran, ma al contrario si veicola una visione delle cose appunto unilaterale e adatta solo a consolidare la lettura manicheista che prepara mentalmente alla guerra. A reti unificate! Eppure come ricorda lo storico Davide Rossi: “la cinematografia iraniana, sino alla rivoluzione, aveva prodotto mediocri pellicole da fotoromanzo orientale, dal 1979 è stata una delle più straordinarie realtà mondiali, con una attenzione per i film per i ragazzi, che ha preso impulso dalla creazione di strutture di tutela dell’infanzia mai esistite prima”.
L’Iran ha compiuto in questi anni enormi passi avanti in ambito tecnico e scientifico, ma ciò non basta per la solerte presentatrice di Piazza Grande che, tagliando corto, spiega al pubblico che “l’Iran guarda al passato”! Non sarà mai stata in Iran, ma l’importante è ripetere frasi fatte, ancora meglio se in inglese (diventata la nuova lingua ufficiale del Cantone). Segue a ruota l’altro grande esperto di storia persiana, il direttore artistico Giona Nazzaro, il quale ci spiega che in Iran le donne pagano un prezzo altissimo, scordandosi però di mostrare l’altra faccia della medaglia: e cioè che dalla Rivoluzione del 1979 in Iran le donne sono oltre la metà delle persone laureate, che vi è un elevato tasso di imprenditrici, di giornaliste, ecc.
Sempre il direttore artistico del Pardo esprime la sua (qualificata) opinione a sostegno delle proteste di piazza dei dissidenti iraniani. Potremmo stare qui a discettare se, nella sua posizione non fosse d’uopo un minimo di equilibrio, ma a me basterebbe che venisse garantito un po’ di pluralismo e non si usasse il Palco di Piazza Grande a geometria variabile. Ci piacerebbe sentire tanto afflato emotivo anche per le proteste dei dissidenti israeliani, ad esempio i giovani refusnik che sono appena stati incarcerati dal regime di Tel Aviv, con cui il Festival del film di Locarno non si faceva problemi a collaborare solo alcuni anni fa. O magari un sostegno esplicito alle proteste popolari in Africa: ma visto che questi “dissidenti” si stanno rivoltando contro l’oppressiva presenza coloniale francese e americana, ecco che forse è meglio non citarli…
Patetico infine il tentativo di Giona Nazzaro affinché la Piazza tributasse una “standing ovation” al regista. Le ovazioni sono spontanee o non sono! Non ricordo direttori precedenti del calibro di Irene Bignardi, Frédéric Maire, Olivier Père o Carlo Chatrian, insistere sbracciandosi affinché il pubblico si alzasse. Lo fa con tutti i registi? O solo con quelli che dissentono dai governi non allineati alla NATO?
E passiamo ora al film, The seed of the sacred fig (“Il seme del fico sacro”) di Mohammad Rasoulof. Lungo, noioso, a tratti scontato. L’intento è peraltro ammesso sin dall’inizio: si tratta di una pellicola politica atta non a comprendere un paese (quello che il regista definisce un “regime totalitario”) ma a giudicarlo secondo i canoni psicologici adatti al solo pubblico europeo.
La critica sociale al governo iraniano è legittima: tematizzare le proteste di piazza e l’uso eccessivo della violenza da parte della polizia, così come indagare sulla dialettica fra consenso e dissenso verso le leggi islamiche in voga nel Paese e il conflitto fra le generazioni, sarebbe anche estremamente interessante e a onor del vero, il film inizia in modo tutto sommato abbastanza equilibrato. Ben presto però il tutto scade in una narrazione lunghissima in cui ovviamente emerge come le donne siano tutte sagge (comprese quelle integrate nella macchina governativa che si dimostrano almeno un po’ comprensive), gli uomini per contro sono tutti violenti e cinici, arrivando addirittura a mostrarli come “pazzi”. Perché tutti coloro che non la pensano come noi devono essere evidentemente dei …pazzi! Il semplicismo è raccapricciante!
Nessuna contestualizzazione è permessa: il conflitto geopolitico con l’Occidente è messo via come “complottismo”; il senso delle proteste di piazza è banalizzato (sarebbero relative praticamente solo alla libertà di vestirsi senza il velo); le condizioni sociali (a livello di politica familiare, di politica dell’alloggio, di accesso alle università, ecc.) che potrebbero essere sviluppate in diverse scene del film vengono in realtà del tutto sorvolate; l’indagine sociologica (il regista è pure laureato in sociologia!) sul tipo di consenso che gli Aytollah godono dentro e soprattutto fuori la città di Teheran è totalmente assente. Il regista preferisce invece concentrarsi lungamente sulle ferite riportate dai manifestanti che si scontrano con la polizia e su un’assurda scena finale tutta costruita per “psichiatrizzare” il cattivo padre di famiglia .
Un film così è un inutile esercizio di propaganda che gioca sull’emotività del pubblico europeo ma non permette di capire nulla dell’Iran di oggi, delle sue contraddizioni e delle sue potenzialità nella costruzione del futuro mondo multipolare.