Al di là del giudizio storico sull’esperienza socialista in Unione Sovietica, il dato oggettivo è che con la sua semplice esistenza l’URSS non solo ha contribuito notevolmente al processo di decolonizzazione, ma ha pure rappresentato un freno all’imperialismo americano e, conseguentemente, ha favorito un certo equilibrio geopolitico al pianeta. Tutto questo è però venuto meno col biennio 1989/1991. Una volta crollato il Muro di Berlino e dissoltasi sia l’Unione Sovietica sia tutti gli Stati socialisti dell’Europa Orientale (con la Bielorussia come sola parziale eccezione), l’obiettivo dell’imperialismo era raggiungere l’egemonia globale del sistema liberal-atlantico a guida statunitense su tutto il mondo. Gli USA, con i loro alleati europei e con la NATO quale braccio militare, hanno così iniziato una fase espansionistica di stampo neo-coloniale. Giustificandola ideologicamente attraverso una presunta difesa dei diritti umani e con l’arrogante scusa di esportare il proprio modello di democrazia a tutti i popoli ritenuti oppressi, a partire dagli anni ‘90 iniziò una tragica e lunga seria di guerre imperialiste, illegali dal punto di vista del diritto internazionale, in palese spregio delle risoluzioni dell’ONU. Tutte queste guerre avevano per obiettivo non solo quello di estendere il dominio statunitense ma anche quello di consolidare un mondo unipolare succube di una sola ideologia, che è diventata un pervasivo pensiero unico: l’atlantismo! Tutto ciò divenne sistemico con la riforma della NATO del 1999 al cui programma “Partnership for peace” aderì sciaguaratamente anche la Svizzera che, conseguentemente, dovette rendere le proprie forze armate compatibili con le esigenze atlantiche tramite la riforma di “Esercito XXI”.
Una sanguinosa cronologia di guerre
Per poter procedere in questo disegno strategico occorreva anzitutto disporre del controllo dei Balcani: nei disegni americani la Jugoslavia doveva quindi sparire sia in quanto paese socialista sia in quanto Stato e parcellizzarsi, così da indebolire anche l’Europa. Il processo di “balcanizzazione” prevedeva sia una via ideologica (che riguardava scuole e media) con una sistematica demonizzazione della Serbia in quanto nazione sovrana, sia una via militare: dapprima si operò infiltrando i comunisti jugoslavi e sconfiggendoli dall’interno, poi armando i movimenti secessionisti croati (fascisti) e bosniaci (islamisti) che iniziarono la sanguinosa guerra civile della prima metà degli anni ‘90. In seguito si fomentò nuovamente l’idea (mutuata nientemeno che dai nazisti) di “Grande Albania” e quindi il separatismo etnico albanese nel Kosovo, fino alla decisione di bombardare la Serbia nel 1999, colpendo simbolicamente persino l’Ambasciata cinese a Belgrado, e infine di occupare con la NATO la regione serba del Kosovo e Metohija dichiaratasi poi indipendente in modo unilaterale nel 2008. Intanto, nel 2002 viene attaccato l’Afghanistan, nel 2003 è la volta dell’Irak, nel 2011 si continua prima con la Libia e poi la Siria, nel 2014 c’è il golpe a Kiev e da parte sionista continua la pulizia etnica ai danni del popolo palestinese.
L’imperialismo è una tigre di carta!
La domanda da porsi ora è: tutta queste prove di forza da parte atlantica, alla fine, sono risultate vincenti? La verità è che in ognuna di queste situazioni gli USA e i loro sottoposti europei hanno subito sconfitte. Certo sono costate migliaia di morti, hanno raso al suolo interi paesi, hanno rallentato con embarghi e sanzioni lo sviluppo economico di paesi che potevano essere emergenti e ci è voluto molto tempo, ma i popoli che hanno resistito, alla fine hanno vinto. Dall’Afghanistan gli imperialisti sono scappati a gambe levate; l’Iraq e la Libia anche se martoriate e divise non sono state affatto “normalizzate”, in Siria il governo legittimo diretto dal Partito Socialista del Risorgimento Arabo (Baath) presieduto da Bashar al-Assad e sostenuto dalla Russia è rimasto in piedi e ha sconfitto sia il separatismo curdo sia l’integralismo islamico, entrambi eterodiretti dagli Stati Uniti. Anche nei Balcani la situazione non è affatto rosa e fiori: la Serbia, nonostante tutte le pressioni e i ricatti occidentali, continua a resistere ai tentativi di sottometterla, non aderisce alle sanzioni anti-russe e insiste nel mantenersi militarmente neutrale. Persino l’ex-presidente sloveno, Danilo Türk, è oggi alleato dei cinesi, tanto da presiedere il think tank internazionale che sostiene la Nuova via della seta. I tentativi di “regime change” attraverso le cosiddette “rivoluzioni colorate” o i classici colpi di stato non stanno funzionando: è fallito il golpe “gülenista” in Turchia che nel 2016 tentò di riportare Ankara nel campo atlantico; è fallito il golpe in Kazakistan che avrebbe reso il Paese ostile alla Russia; stanno fallendo le mobilitazioni filo-occidentali di chi in Iran è nostalgico dello Scià e persino il governo armeno filo-occidentale è stato abbandonato al suo destino nella guerra contro l’Azerbaigian. È fallita persino la controrivoluzione del fantoccio Juan Guaidò in Venezuela. Insomma: l’imperialismo non è invincibile e per quanto riguarda la “american way of life”, possiamo essere abbastanza certi analizzando gli equilibri del mondo, che non riuscirà a imporsi.
Non cantiamo vittoria troppo presto: organizziamoci!
Queste sconfitte che non sono solo militari e geopolitiche ma anche economiche e culturali, hanno però spinto gli Stati Uniti – caduti in una evidente crisi interna (e lo vediamo dalla vittoria anti-establishment di Trump al dissenso che cresce nella società americana passando dall’assalto al Campidoglio) – a ridefinire la loro strategia: porre in secondo piano gli interventi mirati per controllare questo o quel paese e piuttosto agire su un piano più ampio, appunto strategico, ossia frenare sostanzialmente russi e cinesi nel processo di integrazione euroasiatico, da cui tutto dipenderà. La guerra in Ucraina non è quindi una guerra locale: come diciamo da anni essa va letta come un’offensiva del sistema atlantico contro l’idea stessa di multipolarismo. Ma l’imperialismo – insegnava il presidente Mao – è una “tigre di carta” e infatti anche questa nuova strategia non reggerà alla lunga. L’Ucraina (il cui presidente Zelensky presto sarà abbandonato da chi lo aveva finora incensato) – nonostante quello che si inventeranno i media occidentali nei prossimi mesi per addolcire la pillola all’opinione pubblica – ha già perso (malgrado le armi occidentali) sia la Crimea sia il Donbass: è del tutto irrealistico (e quindi anche irresponsabile, a meno che non ce ne importi nulla delle vite umane che ancora si perderanno inutilmente) fare altre ipotesi. La Cina, dal canto suo, continua a crescere in prestigio diplomatico e influenza economica. In Africa infine gli alleati dei colonialisti francesi vengono gradualmente scacciati, a volte persino con rivoluzioni armate. Accerchiare la Russia e aumentare la tensione contro la Cina (eventualmente anche in Africa) resta fondamentale, anzi vitale, per la riproduzione delle élites imperialiste atlantiche: a Washington sanno benissimo che se il multipolarismo trionferà e l’equilibrio globale si sposterà definitivamente verso l’Eurasia si apriranno margini di azione politica potenzialmente progressivi anche in Europa occidentale e in Nordamerica. Uno scenario che non è quindi solo afferente alla questioni geopolitiche internazionali, ma che influenzerà fortemente anche la politica interna e i conflitti sociali nei paesi occidentali. L’imperialismo atlantico ha ancora una potenza di fuoco importante e un’egemonia culturale preponderante, certo, ma la crisi che sta attraversando è di dimensioni ormai irreversibili: l’Europa logorata dal disastro ucraino, le contraddizioni interne al regime sionista, le pressioni anti-establishment negli USA da un lato; l’estensione dei BRICS e il consolidamento della Belt and Road Initiative (BRI) cinese dall’altro rendono chiara l’evoluzione futura. Gli imperialisti lo sanno e operano scientemente per evitarlo; a non averlo ancora capito è la sinistra, e persino una parte di comunisti europei dediti al minoritarismo e all’infantilismo massimalista. Questa inadeguatezza della sinistra è oggi il principale ostacolo a quello che i comunisti cinesi definiscono una fase storica “very turbolent”, ecco perché occorre una maggiore organizzazione e coordinazione dei partiti marxisti che hanno compreso qual è la vera contraddizione epocale su cui si sviluppa la lotta di classe della nostra epoca. Un’intensificarsi della formazione ideologica dei militanti diventa anche strategica in questa fase di transizione che necessita di fermezza e perseveranza perché ora non siamo più chiamati a fare una mera testimonianza di un’idea di alternativa, siamo entrati in una fase di resistenza attiva per costruire quei nuovi rapporti di forza che porteranno al nuovo sistema multipolare.