In questi giorni cade il trentesimo anniversario dell’Ottobre Nero: così viene chiamata in Russia la contrapposizione armata che, nei primi giorni di ottobre del 1993, pose fine alla crisi costituzionale tra il presidente Boris Eltsin e il parlamento. Ordinando ai carri armati dell’esercito di bombardare il palazzo parlamentare, dove si erano asserragliati i suoi oppositori, Eltsin affogò nel sangue quella stessa democrazia in nome della quale aveva smantellato l’Unione Sovietica. Il bilancio degli scontri fu di circa centoventi morti.
Un golpe antidemocratico sostenuto dall’Occidente
La catena di eventi che condusse a questo massacro è nota a tutti. Il 21 settembre Boris Eltsin emanava il Decreto № 1400, in cui dichiarava lo scioglimento del Soviet Supremo e del Congresso dei deputati del popolo, le due camere del parlamento democraticamente eletto.
Eltsin era un diligente esecutore degli ordini dei suoi padroni occidentali, ma il parlamento era diventato un ostacolo al raggiungimento dei loro obbiettivi. La terapia shock a base di privatizzazioni selvagge e tagli mostruosi alla spesa pubblica, che doveva trasformare la Russia sovietica in una ridente e prospera economia di mercato, aveva infatti trovato la risoluta opposizione di gran parte dei deputati.
La Corte Costituzionale dichiarò immediatamente illegittimo il Decreto № 1400, e il Soviet Supremo destituì Eltsin dalla presidenza. Il rifiuto di dare le dimissioni trasformò Eltsin e il suo esecutivo in una banda di usurpatori. Coscienti di trovarsi di fronte a un vero e proprio colpo di stato, il vicepresidente (ma ormai già legalmente presidente) Aleksandr Rutskoj e la gran parte dei parlamentari, guidati da Ruslan Chasbulatov, iniziarono ad organizzare la difesa del parlamento, occupandone la sede, il Palazzo dei Soviet. Eltsin mantenne tuttavia il controllo sui vertici dell’esercito e delle forze dell’ordine. Le numerose manifestazioni popolari in sostegno ai deputati vennero represse brutalmente dalla polizia. Nonostante Rutskoj fosse ormai il legittimo presidente, le leve del potere rimasero in mano all’esecutivo eltsiniano.
Coloro che si opponevano al putsch vennero assediati nel Palazzo dei Soviet. Per ribaltare i rapporti di forze, i difensori del parlamento costituirono una milizia popolare. Il 3 ottobre essa tentò di occupare la torre televisiva di Ostankino, ma la battaglia scaturita con le forze dell’ordine portò a un massacro con 46 vittime. Il giorno successivo Eltsin ordinò l’assalto del Palazzo dei Soviet. Una colonna di carri armati aprì il fuoco contro i piani alti dell’edificio. Le forze erano impari: Rutskoj, Chasbulatov e centinaia di sostenitori furono costretti alla resa. Il bilancio dell’ultima giornata di scontri, in base alle cifre ufficiali, fu di 74 morti.
La sequenza degli eventi è abbastanza chiara: Eltsin effettuò un colpo di stato, sciogliendo il parlamento con la forza e arrogandosi poteri che la Costituzione non gli riconosceva. Nonostante ciò, nel mondo occidentale Eltsin venne applaudito come il leader che aveva fatto piazza pulita una volta per tutte dei fastidiosi retaggi del comunismo. Coloro che per decenni avevano accusato l’URSS di essere una dittatura, si felicitavano della liquidazione armata di un parlamento democraticamente eletto.
I media occidentali falsificano la storia
Ancora oggi la narrazione nei media nostrani sui fatti dell’Ottobre Nero soffre di una faziosità imbarazzante. Come esempio recente possiamo citare un ignoto cronista del Corriere del Ticino (l’articolo non è firmato), che lo scorso 24 giugno si è lanciato in uno spericolato paragone tra i difensori del Palazzo dei Soviet e i mercenari del Gruppo Wagner, che quel sabato di inizio estate marciarono su Mosca. Così, nella narrazione del quotidiano ticinese, i difensori della legalità costituzionale diventano degli spregevoli ribelli:
La rivolta in Russia di Prigozhin e del suo gruppo armato Wagner contro il presidente Vladimir Putin e l’Esercito regolare di Mosca fa tornare alla mente i drammatici eventi di trent’anni fa, con l’insurrezione armata nell’autunno 1993 di Ruslan Khasbulatov e Aleksandr Ruzkoi contro l’allora presidente russo Boris Eltsin.
Senza dirlo esplicitamente, l’articolo delinea molto chiaramente chi sono i buoni e chi i cattivi: ad essere descritti come i golpisti naturalmente sono i difensori del parlamento.
Ma una rapida analisi del contesto legale del conflitto non lascia spazio a interpretazioni. La Corte Costituzionale della Federazione Russa aveva dichiarato incostituzionale lo scioglimento del parlamento. La stessa Costituzione era estremamente chiara al riguardo: in caso di crisi costituzionale era il presidente a dover rinunciare alla carica, mentre il parlamento era dotato dei poteri per destituirlo. Eltsin ne era ben cosciente e lo ammise nel suo discorso alla nazione, che tenne in concomitanza con l’emanazione del Decreto № 1400. Egli riconobbe di non avere il potere legale di sciogliere il parlamento, ma si arrogò ugualmente questo diritto in nome del “supremo volere popolare”.
Chasbulatov e Rutskoj erano“appoggiati da centinaia di loro sostenitori pesantemente armati”, continua il Corriere del Ticino. Con “pesantemente armati” l’ignota penna del Corriere disegna il quadro di una cospirazione ben pianificata. In realtà la formazione delle milizie popolari fu del tutto improvvisata. La videocronaca di quei giorni mostra i manifestanti armati prevalentemente di bastoni e qualche fucile, difficilmente classificabili come “armi pesanti”. Eltsin rispose con i cannoni.
L’articolo procede ad accusare di omicidi arbitrari i difensori del parlamento: Mentre cecchini sostenitori dei rivoltosi sparavano indiscriminatamente dai tetti nel centro di Mosca bersagliando anche auto di giornalisti occidentali che si recavano precipitosamente in redazione, colonne di carri armati e blindati circondarono rapidamente il luogo…
In realtà l’affiliazione dei misteriosi cecchini non fu mai dimostrata, visto che l’anno successivo l’inchiesta fu chiusa prima di giungere a qualche risultato. Esistono diverse ipotesi, molte delle quali puntano il dito sull’amministrazione di Eltsin, certamente interessato ad avere un pretesto per giustificare la soluzione di forza.
La difesa delle legalità dipinta come ribellione armata
Dunque il Corriere del Ticino ribalta il significato degli eventi, incolpando Rutskoj e Chasbulatov, “alla testa dell’opposizione conservatrice comunista”, di aver tentato una ribellione armata.
La difesa della legalità costituzionale viene descritta come una ribellione di nostalgici comunisti, ma è una lettura fuorviante. I comunisti erano certamente la maggioranza, ma non erano soli: ogni schieramento politico che si opponeva all’usurpazione di Eltsin contribuì alla difesa del Palazzo dei Soviet (anche la destra del nazional-conservatore Sergej Baburin). A quanto pare la difesa della legalità costituzionale diventa improvvisamente un crimine se a portarla avanti sono comunisti e monarchici.
Anche il ruolo delle forze armate è da guardare nella giusta prospettiva, rifiutando la falsa dicotomia “ribelli vs esercito”. Eltsin poteva contare sulla fedeltà dei vertici del Ministero della Difesa, ma alla prova dei fatti non fu semplice trovare delle unità militari disposte a sparare sul parlamento. Gli ufficiali dell’unità corazzata che sparò sul Palazzo dei Soviet vennero (letteralmente!) premiati con sacchi di denaro contante.
Qualcuno potrebbe chiedersi se quella del Corriere sia ignoranza o malizia, ma noi lasciamo da parte questo dilemma per porci una domanda più importante: perché si continua a mentire sui fatti dell’Ottobre Nero?
Oggi possiamo constatare che, comunista o capitalista che sia, una Russia forte e sovrana fa ugualmente paura all’Occidente. L’unica Russia che sia mai piaciuta all’Occidente è proprio quella eltsiniana, aperta al saccheggio da parte del capitale straniero e insignificante sul piano geopolitico. Con un simile approccio, non deve stupire se i rapporti tra la Federazione Russa e il blocco euroamericano siano giunti alla guerra aperta.