“Avevamo vent’anni e oltre il ponte che è in mano nemica vedevamo l’altra riva, la vita, tutto il bene del mondo oltre il ponte, tutto il male avevamo di fronte, tutto il bene avevamo nel cuore, a vent’anni la vita è oltre il ponte, oltre il fuoco comincia l’amore.” Non vent’anni qualsiasi quelli passati da Italo Calvino insieme al fratello Floriano nella seconda divisione d’assalto partigiana Garibaldi sui monti liguri – piemontesi, tanto che anni dopo ricorderà la sua esperienza resistenziale partendo dalla “generosità, (dal)l’ansia di far propria ogni causa generosa … devo dire che questo spirito, che permise ai partigiani di fare le cose meravigliose che fecero, resta ancor oggi, per muoversi nella contrastata realtà del mondo, un atteggiamento umano senza pari”. Di quella stagione della sua vita restano tracce indelebili in “Il sentiero dei nidi di ragno e “Ultimo viene il corvo”.
Il centenario della nascita di Italo Calvino racconta di un’esistenza rivoluzionaria prima ancora di vedere la luce del mondo, suo padre infatti, il botanico Mario, è in fuga dalla vecchia Europa dopo che ha regalato i suoi documenti a un matematico russo che ha attentato alla vita dello zar. Mario finisce così in Messico, dirigente scientifico al servizio della Rivoluzione di Zapata e Villa, quindi a Cuba, in cui a Santiago de Las Vegas de La Habana il 15 ottobre 1923 nasce il primogenito Italo, seguito appunto dal secondogenito Floriano che schiuderà gli occhi a Sanremo nel ’27, quest’ultimo partigiano anch’egli seppure solo sedicenne e poi professore universitario, il solo con il coraggio di certificare la vergogna della strage del Vajont del ‘63. La mamma Eva Mameli è anch’essa scienziata, sassarese per madre e per nascita, figlia di un padre genovese in missione come carabiniere nell’isola.
Una famiglia di cultura dunque, che può offrire ai figli i mezzi per studiare in un’Italia in cui povertà e miseria tengono ancora e a lungo le masse proletarie lontano dalle aule universitarie, non a caso Italo, come Floriano, sceglierà la militanza comunista, prima nella Resistenza e poi nella nuova Italia democratica e repubblicana.
Italo Calvino, che condivide con Primo Levi un meraviglioso italiano letterario in prosa, con buona pace di tanti altri più fecondi e più acclamati romanzieri, sarà un militante con la penna in pugno negli anni più roventi e feroci dell’anticomunismo, starà risolutamente al fianco del Partito Comunista Italiano e del suo segretario Palmiro Togliatti e visiterà l’Unione Sovietica nel 1952, raccontandola con parole toccanti, basti ricordare quanto scrive delle studentesse che incontra: “qualcuna ha il fazzoletto rosso dei pionieri intorno al collo, hanno le trecce, le calze lunghe di lana, ci guardano coi loro grandi e chiari occhi russi, curiose ma solo un poco, allegre, attente e imperturbabili.”
Quella militanza si chiuderà alla fine degli anni ’50, un decennio di fervorosa produzione di pagine pacate e al contempo intraprendenti nella critica sociale, pensiamo a “Marcovaldo”, ma anche e soprattutto al durissimo, affascinante e stupendo “La giornata di uno scrutatore”, che molto potrebbe insegnare ancora oggi sul senso e il valore della democrazia, così come ferma e inappuntabile è la denuncia della cementificazione della penisola promossa dalla Democrazia Cristiana negli anni della ricostruzione, raccontata in “La speculazione edilizia”.
Sono quegli stessi anni che lo vedono scrivere e pubblicare per Einaudi “Il visconte dimezzato”, “Il barone rampante” e “Il cavaliere inesistente”, poi diventati la trilogia de “I nostri antenati”, romanzi pieni di fantasia e di libertà, ma anche di un senso dell’uguaglianza che rimanda all’importanza dell’agire insieme e collettivamente e non individualisticamente.
Meritoria l’iniziativa del Piccolo di Milano di mettere in scena, per la regia di Riccardo Frati, una riuscita riduzione de “Il barone rampante”, in cui il fratello narrante ci riporta fin da subito alla parole calviniane: “Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi”, poi meravigliosi costumi disegnanti da Gianluca Sbicca e una scenografia a tratti magicamente capace di giocare con gli spazi e i colori realizzata da Guia Buzzi e le luci curate da Luigi Biondi ci riportano nelle vicende umane di quel ragazzo e di coloro che gli sono attorno e gli vogliono bene, in un interrotto confronto con il suo tempo saporoso di rivoluzione e di illuminismo e così diverso dal nostro, tanto da vederci sperduti e senza il desiderio di levare lo sguardo per cercare nuovi orizzonti lontani.
Prima di altri Calvino per altro aveva capito la sorte del vecchio continente, destinato a una decrepitezza sterile e immalinconita, tanto che visionariamente vedeva le moschee e i minareti di una popolazione giovane che avrebbe passato il Mediterraneo per cercare quel pane che stentava a raccogliere nella sua terra, popolando le strade di Roma e di Parigi, di Bruxelles e di Berlino nel XXI secolo.
Le opere tarde si perdono nei mille meandri dell’incanto, “Il castello dei destini incrociati” squaderna le carte dei tarocchi e si interroga sulla forme del sapere, ma è con “Le città invisibili” che ancora una volta ci offre il metro e la misura di una vita ben spesa, purché per amore della conoscenza.
Questo infatti ci racconta in quel libro fantastico in cui la città di Tecla è rivelatrice di questo insegnamento, là donne e uomini armeggiano nell’edificare la loro città in un lavoro costante che è simbolo di cammino, ancorché verticale e di ricerca, il narratore resta stupito e pone domande sul loro agire, gli abitanti rispondono perentori: “Te lo mostreremo appena terminata la giornata; ora non possiamo interrompere”. Scrive infine Calvino: “Il lavoro cessa al tramonto. Scende la notte sul cantiere. È una notte stellata. – Ecco il progetto, – dicono.” Perché chi insegue una stella, insegue sempre con amore la conoscenza.