Dieci anni fa il grande regista kazako Darezhan Omirbayev ha portato a Cannes il magnifico “Lo studente” dalla strepitosa fotografia: il vaso di frutta, la casa di legno colorata, gli sguardi, i pensieri, era una storia di vaga ispirazione dostojevskiana, incentrata sulla dicotomia insanabile tra presente e passato, in cui il secondo perdendo vince. Da un lato l’arroganza dei soldi, le case moderne, dall’altro lo studente protagonista, nella sua vecchia dacia russa, stretto tra la sua famiglia, l’amata, il padre di lei, scrittore sovietico oramai dimenticato, i primi vincono ma sono privi di umanità, i secondi perdono, ma riannodano il filo delle generazioni, rendendo possibile immaginare un diverso domani. Con il capolavoro “Poeta”, presentato ora a Berlino, ci troviamo di fronte a una nuova riflessione sul tempo, sulla parola e sul suo potere, ma anche sui limiti che devono affrontare tutti i poeti nel passato come in un presente distratto, in cui la tecnologia e la modernità sembrano addirittura negare il diritto alla poesia.
Didar, un giovane poeta kazako, resta spaesato di fronte a una società che accetta il colonialismo culturale anglofono come strumento di trasmissione dei contenuti, che si riduce a essere fruitrice passiva di immagini trasmesse dai dispositivi elettronici, i suoi pensieri e le sue parole corrono al mitico Otemisuly Makhambet, ucciso nel 1846, venerato sulla sua tomba in silenzio per decenni, mentre le sue parole risuonavano nel cuore di un popolo che stava facendosi nazione. Nel 1966 i sovietici ne riesumano le spoglie, nel 1974 ne consegnano i resti a uno studioso, forse il momento più toccante della pellicola, in una assolata giornata estiva mentre spensierati ragazzi suonano e cantano nel giardino comune della brezniovka, una delle case prefabbricate che ancora oggi segnano tanta parte dell’orizzonte geografico e abitativo post-sovietico, la pellicola si conclude sulle epigrafi del mausoleo di Makhambet, voluto nel 1983 dal potere marxista moscovita e ampliato nel decennio successivo dal nuovo governo kazako, consapevoli entrambi di dover onorare parole eterne di bellezza e libertà.
Gangubai Harjivandas, nata nel 1939, a sedici anni a Mumbai è venduta, picchiata e violentata, in un’India lontana alla metà del Novecento, è tuttavia riuscita a trovare in lei la forza e la determinazione, la sensibilità e l’intelligenza per intraprendere la strada del riscatto suo e di tante ragazze costrette nella sua condizione, tutto questo è raccontato nello spettacolare e toccante “Gangubai Kathiawadi” dal regista Sanjay Leela Bhansali con la bella e volitiva Alia Bhatt nella parte della protagonista di uno dei più meritevoli, ancorché dolorosi, esempi di emancipazione femminile.
Nuova straordinaria prova autoriale di Ulrich Seidl con “Rimini”, restituita non nella bellezza delle sue estati, ma nel turbinio ventoso di invernali piogge, nebbie, nevi, un grigiore dimesso e plumbeo che accompagna fotogramma dopo fotogramma il racconto degli austriaci di oggi, anziani modestamente abbienti e tristi, paradigmatici di tutto il continente, capaci di farsi bastare una scampagnata fuori stagione in alberghi desolati e scrostati, l’ebbrezza di un concerto di un loro conterraneo, attempato melodico dagli atteggiamenti da rockettaro degli anni ’70, interpretato da un superlativo Michael Thomas, pronto ad arrotondare per sopravvivere con improbabili prestazioni carnali a pagamento per le concittadine in cerca di fremiti e ricordi ferocemente sbiaditi.
“Nana” di Kamila Andini, con una fotografia e una regia di squisita bellezza, ci parla della persecuzione dei comunisti indonesiani alla metà degli anni ’60, ovvero di come un movimento di straordinarie dimensioni, profondamente radicato tra i ceti popolari e con solidi ancoraggi nel mondo intellettuale, sia spezzato e distrutto dall’avvento della dittatura di Suharto, imposta da Washington. La grande storia si muove sullo sfondo, attorno a Nana, interpretata da una magistrale Happy Salma, e alla sua famiglia, in una casa immersa nel verde di Bandung, là dove il presidente indonesiano Sukarno aveva invitato alla metà del decennio precedente i capi di stato delle nazioni emergenti, dal ghanese Kwane Nkrumah al cinese Zhou Enlai, per lanciare il Movimento dei Non Allineati, che prenderà forma compiuta nel 1961 per volontà del marxista jugoslavo Tito.
Max Linz in “Lo stato ed io” si diverte a giocare nella Berlino di oggi sul senso della magistratura e della polizia in Germania, a confronto con i valori universali d’uguaglianza propugnati della Comune di Parigi, trascinato dalla poliedrica protagonista Shopie Rois.
La regista Lee Ji-eun con l’autobiografico “I segreti della collina” ci racconta la brutalità di un sistema scolastico competitivo in una società ferocemente classista quale quella sudcoreana della fine del XX secolo, l’esatto opposto del sistema educativo europeo, raccontato dal documentario belga “Cuori gentili” di Olivia Rochette e Gerard-Jan Claes, che ci mostra adolescenti simpatici, ma fragili e spaesati, ben oltre la stagione pandemica.
Grande ma immeritato rilievo per le “Allodole su un filo”, modesto film di Jiří Menzel del 1969, tratto dall’omonimo romanzo di Bohumil Hrabal, poi vincitore della Berlinale nel 1990, quando il governo cecoslovacco ne ha permesso la circolazione, nonostante nel film si vedano borghesi anticomunisti che rifiutano il fazzoletto rosso dei pionieri, in segno di lontananza rispetto al percorso rieducativo a cui sono assegnati.
La proiezione di “Mamma Roma”, seconda parte del dittico cinematografico d’esordio di Pier Paolo Pasolini, insieme ad “Accattone”, ci ha ricordato che è il centenario della nascita del geniale intellettuale, scrittore, poeta e regista bolognese per studi e friulano per profonde radici materne.
“Una femmina” di Francesco Costabile non convince sia per il soggetto, sia per le modalità realizzative, da un lato la pellicola riduce il fenomeno complesso, stratificato e ben radicato nelle professioni della ‘ndrangheta a un gruppo di sanguinari e arcaici montanari semianalfabeti, dall’altro, volendo realizzare una specie di favola orrorifica, si sceglie una fotografia bislacca, molto spesso a mezzo schermo sfuocato, comunque sempre a tinte scure e cariche per accentuare, al pari di una colonna sonora invadente e disturbante, una cattiveria che probabilmente si temeva di non riuscire a trasmettere a sufficienza con i volti e gli sguardi del collettivo attoriale.