La revisione della LCO2 si fonda su misure fiscali antisociali
La riforma della legge federale sul CO2 (LCO2) approvata dalle camere federali durante la sessione autunnale si basa essenzialmente sull’estensione di varie tasse sui consumi, con l’obiettivo di “riorientare” in modo sostenibile le abitudini della popolazione. La più nota di queste misure fiscali è l’aumento della tassa sulla benzina, il cui costo aumenterà di 10 cts/litro fino al 2024 e di 12 cts/litro dal 2025. Questo aumento non cambierà però certamente le abitudini di trasporto, come dimostrato dall’assenza di impatto delle ben maggiori variazioni di prezzo avvenute negli ultimi anni (tra il 2019 e il 2020, il prezzo della benzina è ad esempio aumentato di 25 cts/litro!). Al contrario, esso colpirà gli abitanti delle regioni più periferiche con redditi modesti, a cui non viene offerta alcuna reale alternativa all’automobile.
Le camere hanno inoltre deciso di aumentare anche la tassa sull’olio combustibile, che passerà dall’attuale tetto massimo di 120 a 210 CHF per tonnellata di CO2 emessa. Una parte dei proventi di questa tassa verrà redistribuita ai proprietari che decideranno di risanare i loro immobili e di sostituire gli impianti di riscaldamento a nafta. Non vi è però alcuna garanzia che questa redistribuzione si ripercuota positivamente sui locatari; è invece certo che, nel caso in cui i proprietari decidano di non fare nulla (non vi è infatti alcun obbligo di risanamento), gli affitti verrebbero aumentati per scaricare sui locatari i maggiori costi di riscaldamento.
I sostenitori della legge segnalano che una parte dei proventi di queste tasse sul CO2 verranno redistribuiti alla popolazione. È però bene ricordare che questa quota verrà “suddivisa in maniera uguale fra tutte le persone fisiche”: il milionario riceverà dunque lo stesso importo dell’operaio! Peraltro, non tutti i proventi della tassa ritorneranno alla popolazione: una parte di essi verrà infatti ridistribuita alle imprese in funzione del loro numero di impiegati (e non della loro impronta ecologica). Inutile dire che, quando siamo scesi in piazza lo scorso anno per rivendicare la “giustizia climatica”, non volevamo certo una riforma simile!
I veri responsabili del riscaldamento climatico non vengono toccati
A differenza delle classi popolari, la piazza finanziaria, principale responsabile dell’impronta ecologica della Svizzera (gli investimenti in energie fossili targati CH provocano oltre venti volte la quantità di emissioni prodotte dal nostro paese!) non verrà toccata minimamente dalla nuova legge. Essa si limita infatti ad imporre una verifica periodica dei rischi finanziari del riscaldamento climatico: in poche parole, gli istituti finanziari potranno continuare a realizzare investimenti inquinanti senza problemi, purché siano coscienti del fatto che queste operazioni potrebbero essere “rischiose”.
Le emissioni prodotte dall’industria svizzera saranno invece ancora regolate dal sistema di scambio di quote d’emissioni (SSQE), un sistema che pochi anni fa lo stesso Controllo federale delle finanze ha definito come inefficace, in quanto non incita le aziende a ridurre le proprie emissioni. Una parte di questi diritti di emissione continuerà in effetti ad essere assegnata a titolo gratuito, le imprese che partecipano al SSQE potranno continuare a richiedere la restituzione dei proventi della tassa sul CO2, mentre le quote acquistate potranno essere sempre messe all’asta sul mercato europeo, alimentando la speculazione finanziaria e riducendo il controllo pubblico sull’effettiva “compensazione” delle emissioni che potrà essere (o non essere) realizzata all’estero.
In sintesi, la nuova legge sul CO2 non prende in considerazione nei propri obiettivi le enormi emissioni prodotte all’estero da banche e aziende svizzere, che continueranno invece a beneficiare di vari strumenti finanziari per ridurre il costo del proprio impatto ecologico.

La nuova legge è insufficiente e bloccherà ogni progresso in futuro
Il fatto che la revisione della legge sul CO2 sia insufficiente per bloccare il riscaldamento climatico è ormai assodato. Lo stesso premio Nobel per la chimica Jacques Dubouchet ha dichiarato che “tutti sanno che questa legge non realizzerà la speranza di limitare il riscaldamento climatico a 1.5° C, a 2° C o peggio ancora”. Secondo i sostenitori della legge, ci si dovrebbe accontentare di questa riforma, anche se insufficiente, per concentrarsi in seguito sulla lotta per nuove e più incisive misure di riduzione delle emissioni. Il problema è però che, oltre a consolidare il modello di “ecologia di mercato” a cui tiene fortemente il padronato, la nuova legge servirà da punto di riferimento per le politiche ambientali di tutto il prossimo decennio. In altre parole, la LCO2 è una “legge-alibi” che verrà puntualmente utilizzata dalla destra borghese per impedire qualunque passo in avanti nei prossimi anni. Ecco perché sostenerla bloccherebbe qualunque ulteriore progresso in materia ambientale ed accettarla significa di fatto rinunciare ad adempiere agli obiettivi di riduzione delle emissioni necessari per impedire il disastro ambientale.
Se si vuole salvare il clima, deve essere lo Stato ad intervenire
Invece della LCO2, ciò di cui abbiamo bisogno è una politica climatica radicalmente diversa, fondata non più sull’autonomia del mercato bensì sul primato dello Stato. La sfida del riscaldamento globale è infatti troppo grande e troppo importante per credere che con qualche incentivo fiscale si possa realmente risolvere il problema alla radice. È invece lo Stato che deve farsi carico della transizione ecologica, assicurando che essa avvenga in modo democratico e socialmente equo.
In ambito energetico, sono necessari l’abbandono della liberalizzazione del mercato elettrico e la nazionalizzazione integrale del sistema energetico del Paese, oltre ad un grande piano di investimenti pubblici che permetta un massiccio sviluppo delle energie rinnovabili. Sul piano dei trasporti, va ampliata la gestione statale delle aziende di trasporto pubblico, di cui va assicurata la gratuità e la capillarità. In materia fiscale, occorre abbandonare il SSQE ed introdurre una fiscalità realmente ecologica che punisca le aziende inquinanti, oltre ad implementare un reale controllo pubblico sulla piazza finanziaria. Infine, va adottata una politica alimentare che consenta lo sviluppo dell’agricoltura locale, secondo il principio della “sovranità alimentare”.
Dire che questa legge è “un primo passo nella giusta direzione” è falso ed illusorio. Il referendum serve a bloccare questo progetto antisociale e ad aprire un dibattito – anche a sinistra – sul carattere da dare alla transizione ecologica. Esso è però solo un primo passo: se riusciremo a respingere la legge, occorrerà continuare a lottare dentro e fuori dal parlamento per una diversa politica ambientale.