///

Elezioni USA: prove generali di bipensiero?

Sabato 14 novembre, a Washington D.C. si è svolta un’imponente manifestazione dei sostenitori di Donald Trump, radunatisi per protestare contro i supposti brogli elettorali in favore di Biden. Il presidente continua a tuonare su Twitter, denunciando le (presunte) falsificazioni del voto. Venerdì 13 novembre aveva messo sotto accusa il sistema elettronico di voto “Dominion”, impiegato negli stati contesi, che in totale avrebbe eliminato 2,7 milioni di voti a lui favorevoli e ne avrebbe assegnati altri a Joe Biden. Accanto al tweet, l’amministrazione di Twitter ha posizionato il solito avviso che ormai accompagna la maggior parte dei messaggi del presidente: “This claim about election fraud is disputed”, questa accusa di frode elettorale è contestata. Il 5 novembre invece, poco dopo l’Election Day, i principali canali televisivi del paese avevano troncato la diretta del discorso di Trump, in cui stava appunto accusando i democratici di brogli. Lo stesso giorno Facebook bannava il neonato e virale gruppo “Stop the Steal”, creato da sostenitori di Trump per organizzare la resistenza alle falsificazioni elettorali. Il motivo? L’attività del gruppo delegittimava il processo elettorale. Si potrebbe domandare a Facebook e compari perché non abbiano bloccato i gruppi social dell’opposizione europeista in Bielorussia, che cerca di delegittimare la vittoria di Lukashenko alle elezioni di agosto. Ma sarebbe una domanda retorica.

Lotta alle “fake news” o censura?

Certo, concettualmente non si tratta di niente di nuovo. È già da qualche anno che i principali colossi del web sono impegnati in una guerra alle “fake news”, e le decisioni di Twitter si inseriscono perfettamente nel solco tracciato. L’isteria da “fake news” ha raggiunto livelli tali che nessuno si è preoccupato più di tanto quando Facebook, Google e soci hanno iniziato a filtrare le notizie per tutelare gli utenti dalle malvagie bufale. Chiaramente solo i più ingenui possono pensare che dietro a tutto ciò ci sia un reale meccanismo di verifica delle informazioni. In realtà si tratta di un semplicissimo espediente per emarginare l’informazione scomoda, e propinare alla gente la propria versione dei fatti. Quello delle “fake news” è un problema reale, sia ben chiaro, ma è allarmante che le multinazionali del web vogliano sostituirsi alla nostra capacità critica di valutare l’attendibilità di una notizia. Inoltre, “fake news” ai danni di paesi come Cina e Russia, rivali geopolitici di USA e Unione Europea, vengono diffuse ogni giorno in grandi quantità, senza che Facebook e Co. muovano un dito per arginarle. Siamo ormai abituati a queste menzogne, le consideriamo normali strumenti della lotta che il grande capitale conduce contro i suoi nemici, e ormai non ci facciamo quasi più caso. Ma vedere l’intera massa dei media globalisti cercare di tappare la bocca al presidente degli Stati Uniti d’America, fa invece una certa impressione.

Accuse di brogli: sono davvero infondate?

Mentre tutti si concentrano sulle caricature di Trump intento a barricarsi nella Casa Bianca, una notizia interessante degli scorsi giorni, riguardo ai sistemi di voto Dominion, è passata praticamente inosservata. Si tratta di una vicenda accaduta poco tempo prima dell’inizio delle primarie del Partito democratico, e tornata a galla adesso, in seguito alle accuse del presidente. Quattro senatori democratici, tra i quali anche la candidata Elizabeth Warren, nel dicembre 2019 avevano inviato una lettera di protesta a Dominion Voting Systems, denunciando diverse attività sospette dei loro sistemi di voto (leggi qui). Tra le criticità riscontrate vi era anche il trasferimento di voti da un candidato all’altro. Nella lettera, i senatori democratici arrivarono ad affermare che questi problemi “minacciano l’integrità delle elezioni”. Insomma, già un anno fa alcuni esponenti di spicco del Partito democratico avevano messo in discussione la sicurezza dei sistemi Dominion. Oggi Trump sta facendo lo stesso, ma viene descritto come un bambino capriccioso che si inventa scuse improbabili per non accettare la sconfitta.

La doppia verità dei media globalisti

Certo, i modi teatrali di Donald Trump contribuiscono non poco a esasperare la situazione. Ma l’accusa di frodi elettorali è davvero qualcosa di inedito? A pensarci bene, la stessa vittoria di Trump è stata messa in discussione più e più volte. La denuncia di interferenze russe nelle elezioni del 2016, peraltro mai dimostrate, è stata una costante di tutta la presidenza del tycoon, e ha persino contribuito a imbastire un tentativo di impeachment. Perché Trump che accusa di irregolarità un sistema di voto elettronico “delegittima il processo elettorale”, mentre i democratici che agitano lo spauracchio di fantomatici hacker russi no? Non si è mai visto un social network segnalare un post sul Russiagate come non attendibile. Eppure le prove sul Russiagate sono vaghe tanto quanto quelle di Trump riguardo ai brogli. La verità è che nulla delegittima di più la democrazia di un paese del tentativo di ridurre al silenzio il presidente democraticamente eletto, anche se sta dicendo scemenze.

Ci troviamo insomma di fronte a un classico esempio del bipensiero di orwelliana memoria. Due più due fa quattro, ma può fare anche cinque, se la situazione lo richiede. La violazione delle elezioni da parte di hacker russi è ipotesi valida e rispettata, ma ipotizzare che lo stesso sia potuto accadere per mano dei democratici è invece automaticamente menzognero e oltraggioso. Le accuse al sistema di voto elettronico sono “totalmente false e infondate”, eccetto quando sono i democratici a pronunciarle.

Se le frodi elettorali abbiano effettivamente avuto luogo è assolutamente irrilevante ai fini di questo discorso. Ciò di cui è importante prendere nota, in questa situazione, è la capacità dei media globalisti di inculcare a tutti la propria interpretazione della realtà. Joe Biden è stato ovunque annunciato vincitore, nonostante nessuna istituzione americana l’abbia ancora riconosciuto tale. Si sta giocando sporco in questi giorni, tra la fazione globalista e quella sovranista della borghesia mondiale. Se questi sono i livelli a cui è giunta la contrapposizione tra due differenti strategie capitalistiche, possiamo solo immaginare quanto aspra sarà l’opposizione dei media quando il potere verrà rivendicato da una forza davvero progressista.

Nil Malyguine

Nil Malyguine, classe 1997, è laureato in storia all'Università di Padova. Si occupa in particolare di storia della Russia e dell'Unione Sovietica. Dal 2020 milita nella Gioventù Comunista Svizzera.