<> on September 3, 2016 in Hangzhou, China.
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La Turchia abbandona i separatisti uiguri e apre le porte al Partito Comunista Cinese

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan per anni ha attaccato Pechino con il suo esplicito sostegno alla minoranza uigura, un gruppo musulmano di etnia turca nello Xinjiang, che stando alla propaganda islamista e anti-comunista sarebbe soggetto a orribili violazioni dei diritti umani. Nel 2009 Erdogan qualificava addirittura di “genocidio” quello contro gli uiguri. E non erano solo parole vuote: la Turchia è stata un rifugio sicuro per i separatisti uiguri e ospita una gran parte della diaspora uigura nel mondo.

Poi è avvenuto un cambiamento. Ad ammetterlo non è solo il nostro portale che fin dall’inizio ha reso attenti i propri lettori a non confondere con troppa faciloneria la Turchia prima del 2016 con quella odierna, ma lo dice non senza preoccupazione il sito filo-atlantico foreignpolicy.com: “Nel 2016, la Turchia ha arrestato Abdulkadir Yapcan, importante attivista politico uiguro che vive in Turchia dal 2001 e ne ha addirittura avviato un processo di estradizione: in effetti nel 2017 Ankara e Pechino hanno firmato un accordo che consente l’estradizione anche se il presunto reato è illegale solo in uno dei due paesi, il che va a tutto vantaggio dei cinesi”.

Dall’inizio del 2019, la Turchia ha arrestato centinaia di terroristi uiguri che prima difendeva e li ha espulsi, mentre sia le dichiarazioni di Erdogan sia i servizi giornalistici della stampa vicina all’AKP, il partito al governo in Turchia, sono diventate molto più diplomatiche ed equilibrate.

L’importante cesura geopolitica del 2016

L’inversione di marcia compiuta dal governo turco ha alcune spiegazioni: da un lato c’è un problema politico e dall’altro c’è una crisi economica. Il problema politico è relativo al conflitto latente con il campo atlantico, la NATO e la setta islamista di Fethullah Gülen che orchestrò il tentato colpo di stato cui Erdogan sopravvisse nel luglio 2016: il separatismo uiguro, infatti, è uno strumento dell’imperialismo statunitense ed era fortemente sostenuto proprio dalla confraternita gülenista che avendo in odio la Cina, ha sempre operato affinché la Turchia non si aprisse all’Eurasia. Accanto a ciò vi è la questione economica: Ankara ha aumentato negli anni le relazioni commerciali con l’Asia più che con l’Europa e la pandemia da Coronavirus ha accelerato le difficoltà del settore primario e del turismo.

Da quando il governo di Ankara ha iniziato a orientarsi verso la Russia e la Cina e a rompere le relazioni con la setta fondamentalista di Gülen che controllava il paese per conto degli USA e dell’UE, ecco che la Turchia che con l’arrivo di Erdogan al potere veniva lodata quasi fosse un “modello di democrazia e sviluppo economico nella regione” (così foreignpolicy.com ad esempio) è passata nella narrazione faziosa dei grandi media main-stream occidentali (e della stessa sinistra europea ferma a letture manichee) ad essere una …”dittatura”. Come mai? E’ la scelta di campo strategica e geo-economica di Erdogan che conta nei giudizi dei giornalisti, certamente non la reale situazione dei diritti umani!

La Turchia è un paese strategico per il progetto di Nuova via della seta cinese

Il governo turco sta rafforzando il suo controllo sulla Banca centrale (un punto su cui la sinistra rivoluzionaria ha sempre insistito), le riserve estere si stanno riducendo, il deficit commerciale è in aumento e la lira turca si svaluta.

Dal 2016 Turchia e Cina hanno firmato 10 accordi bilaterali anche su salute ed energia. La Cina è ora il secondo partner di importazione della Turchia dopo la Russia. La Cina ha investito 3 miliardi di dollari in Turchia tra il 2016 e il 2019 e intende raddoppiarli entro la fine del prossimo anno. E quando il valore della lira turca è sceso di oltre il 40% nel 2018, la Banca industriale e commerciale cinese (di proprietà statale) ha fornito al governo turco 3,6 miliardi di dollari in prestiti per vari progetti. E ancora nel giugno 2019, la Banca Centrale della Repubblica Popolare ha trasferito un miliardo di dollaro verso Ankara: il più grande afflusso di denaro in base a un accordo di scambio tra le banche centrali dei due paesi che è stato rinnovato l’ultima volta nel 2012. Non è finito: Pechino ora consente alle società turche di utilizzare lo yuan cinese per effettuare pagamenti commerciali, escludendo il dollaro: un altro fondamentale passo avanti nella cooperazione finanziaria.

La Nuova via della seta (Belt and Road Initiative) cinese offre poi alla Turchia una fonte di denaro fresco e a Pechino un punto d’appoggio strategico sul Mar Mediterraneo. Nell’ambito delle infrastrutture va segnalato in particolare come la Turchia abbia completato una ferrovia da Kars a Baku (Azerbaigian), via Tbilisi (Georgia) che collega alle reti di trasporto verso la Cina. Non a caso poi è scoppiata una guerra fra l’Armenia (il cui attuale governo è filo-americano!) e l’Azerbaigian filo-turco. Cinese al 51% è pure da quest’anno anche il ponte Yavuz Sultan Selim che collega l’Europa e l’Asia attraverso il Bosforo. E sempre la Cina sta finanziando con 1,7 miliardi di dollari la nuova centrale elettrica di Hunutlu che dovrebbe produrre il 3% dell’elettricità turca una volta completata.

L’esercito turco resta nella NATO ma diversifica la propria tecnologia militare

Al di là delle infrastrutture economiche, la cooperazione sino-turca tocca anche le forze armate e la politica di sicurezza. Il missile balistico turco Bora è stato modellato sul missile cinese B-611 ed è stato introdotto nel 2017 utilizzandolo nella guerra contro il separatismo curdo (che la sinistra europea considera “comunista” mentre i cinesi evidentemente no!) e la partecipazione di ufficiali cinesi e commissari politici del Partito Comunista Cinese nell’esercitazione militare di Efeso nel 2018 non sono più una rarità, così come è noto il conflitto fra Ankara e Washington per la decisione turca di acquistare il sistema di contraerea della Russia per diversificare la tecnologia militare e non più dipendere solo dalla NATO.

E mentre la ditta di telefonia Huawei, è stata designata come una minaccia alla sicurezza nazionale negli USA e in altri paesi liberali a causa dei suoi legami con il Partito Comunista Cinese, in Turchia ha campo libero, tanto che dal 2017 al 2019 la sua quota di mercato è salita dal 3% al 30%. Un’altra azienda cinese, la ZTE, sempre nel 2016 (un anno che avevamo definito di cesura) ha poi rilevato il 48% di Netas, il principale produttore turco di apparecchiature per le telecomunicazioni che controlla sia le comunicazioni dell’aeroporto di Istanbul sia la digitalizzazione dei dati sanitari turchi.

Il Vatan Partisi c’entra qualcosa?

Il denaro cinese aiuta Erdogan a evitare di cercare aiuto da istituzioni imperialiste come il Fondo Monetario Internazionale, che invece hanno fatto i precedenti governi a guida laica e socialdemocratica, ad esempio quello di Bülent Ecevit, imponendo pesanti misure di austerità alla popolazione.

La cooperazione fra Turchia e Cina si rafforza anche grazie al lavoro più o meno sotterraneo di un piccolo partito della sinistra turca di tradizione maoista che il nostro portale ben conosce (leggi qui), il Vatan Partisi, guidato da Dogu Perinçek che benché proveniente dalla tradizione laicista e non sia mai stato alleato del partito di Erdogan, forte delle sue storiche relazioni con i comunisti cinesi, funge di fatto da collegamento fra Ankara e Pechino anche in ambito economico, come noi avevamo comunicato già nel 2017 (leggi qui).