Oltre settecento delegati e un Palazzetto dello Sport pieno zeppo: erano circa ventimila i cittadini accorsi all’Arena di Ankara per assistere al Congresso straordinario del Partito dei Lavoratori di Turchia. Un evento salutato dall’ambasciatore del Vietnam socialista e a cui ha presenziato persino un funzionario del corpo diplomatico dell’Egitto post-islamista. Senza contare la copertura mediatica fornita da parte dell’agenzia stampa dell’Iran.
Un partito di origine maoista
Nato sulle ceneri del Partito Rivoluzionario Operaio e Contadino (TIKP) di stretta osservanza maoista poi represso dalla giunta militare, e del successivo Partito Socialista (SP) chiuso dal governo turco per presunta attività separatista, il Partito dei Lavoratori (IP) si costituisce formalmente nel 1992 ed è da sempre stato guidato da Dogu Perinçek, avvocato e leader storico della corrente filo-cinese della sinistra turca.
Negli ultimi anni IP ha rappresentato l’organizzazione di ispirazione marxista-leninista più grande e incisiva della Turchia. Non tanto a livello elettorale, dove non ha mai superato lo 0,5% (vittima di una corsa al voto utile devastante, essendo lo sbarramento parlamentare al 10%) quanto piuttosto nella società civile, nei sindacati, nel mondo dei media. IP è infatti proprietario di un canale televisivo “Ulusal Kanal” (Canale Nazionale) e di un quotidiano “Aydinlik” (“Illuminazione”), oltre che di una rivista culturale molto diffusa a livello accademico “Bilim ve Ütopya” (“Scienza e utopia”) e di “Teori”, il mensile teorico per i militanti.
Oggi IP gode di ampie relazioni internazionali soprattutto nell’area mediorientale: con la Lega Operaia del Libano, con il Partito Socialista Baath della Siria, con il Partito Socialista Egiziano, ma anche in altre parti del mondo: in Svizzera con il Partito Comunista, in Messico con il Partito del Lavoro, in Venezuela con il Partito Socialista Unito, in Corea del Nord con il Partito dei Lavoratori, ecc.
La sintesi fra marxismo e …kemalismo
Nel 2006 il Congresso del Partito decise una svolta strategica di portata storica: vedendo venir meno i principi laici e repubblicani del Paese e riconoscendo il carattere eversivo dell’islamismo di Recep T. Erdogan, IP stabilì come priorità la difesa dei valori democratici, laici e sociali della Rivoluzione anti-coloniale turca di inizio secolo e sostenuta anche dal giovane potere bolscevico.
La stella gialla su sfondo rosso, che rammentava in qualche modo il passato filo-cinese del Partito, venne sostituita da una stella bianca su sfondo rosso che ricordava maggiormente la bandiera nazionale. La narrazione collettiva del Partito ha iniziato poi ad essere egemonizzata da un discorso patriottico e anti-imperialista.
Non si tratta ancora, insomma, di costruire il socialismo – come invece propone il locale Partito Comunista (KP, molto vicino al KKE greco) – ma di rendere la Turchia un paese completamente indipendente dall’imperialismo americano, dall’UE, dal FMI e dalla NATO, unendo il proletariato con i contadini e con la piccola borghesia nazionale, ma soprattutto escludendo distinzioni etniche: le classi subalterne turche e curde devono stare unite contro il padronato turco e i signori semi-feudali curdi, riprendendosi i valori repubblicani ormai distrutti prima dai neo-liberisti e poi dagli islamisti.
Ecco così che IP, accanto a Vladimir Lenin, a Mao Zedong e al martire comunista Deniz Gezmis, ha fortemente insistito su Mustafa Kemal Atatürk, l’unica figura che campeggiava durante il Congresso del 15 febbraio scorso. Atatürk, fortemente osteggiato da certa estrema sinistra e spesso travisato nella lettura storica che ne dà la sinistra eurocentrica, è non solo il fondatore della Turchia moderna e laica, ma fu soprattutto il teorico del “Devlet Sosyalizm” (“Socialismo di stato”). Completare i disegni del kemalismo assume per IP quindi una valenza prioritaria nella definizione di una via turca al socialismo.
IP inizia quindi a rappresentare oggi a tutti gli effetti una alternativa ai socialdemocratici del Partito Repubblicano del Popolo (CHP, fondato proprio da Atatürk) quale vero erede delle sei “frecce” del kemalismo e cioè: Repubblicanesimo; Patriottismo; Popolarismo; Statalismo; Laicismo e Rivoluzionarismo.
In un momento in cui nel CHP i vertici social-liberali si aprono al separatismo curdo, all’interventismo militare in Siria e alle privatizzazioni neo-liberiste, il malcontento è altissimo fra la base kemalista che inizia a tornare a guardare verso sinistra, trovando appunto IP pronto ad accoglierli, nell’ottica – come dicono in IP – di unire il popolo e “completare la Rivoluzione kemalista” interrotta dalla svolta filo-occidentale dei governi successivi ad Atatürk.
Il Partito dei Lavoratori diventa Partito Patriottico
Il presidente di IP Dogu Perinçek ha ricordato come i patrioti e i socialisti fossero uniti agli inizi del 20° secolo, come assieme abbiano combattuto nella guerra di liberazione nazionale contro il colonialismo e come – uniti sotto il comando di Mustafa Kemal – abbiano lanciato la Rivoluzione turca e fondato la Repubblica nel 1923. Poi, però, “li hanno divisi” ha tuonato il leader da poco scarcerato: ai primi hanno detto di voltare le spalle ai diritti dei lavoratori, ai secondi hanno intimato di scordarsi della questione nazionale. Perinçek ha insomma ribadito nella sua relazione il rifiuto del cosmopolitismo che ha pervaso la sinistra europea. Discorso che stona per la sinistra occidentale, ma che in realtà non rappresenta nulla di scandaloso: i marxisti-leninisti hanno infatti sempre distinto l’internazionalismo dal cosmopolitismo borghese.
E’ evidente che la Turchia è un paese vittima dell’imperialismo e non è paragonabile a un paese avanzato d’Europa: ecco che quindi il patriottismo assume in quel contesto un valore tendenzialmente progressista e rivoluzionario. Non così la pensano, però, i comunisti riuniti in altri partiti come il KP che considera invece la Turchia un paese in cui vi sono le condizioni oggettive (ma non soggettive) per tematizzare la trasformazione socialista della società. E’ la storica divisione del movimento operaio turco: IP segue la strategia MDD (Milli Demokratik Devrim, cioè Rivoluzione Nazionale Democratica), mentre KP segue la linea della Rivoluzione socialista, senza definire tappe intermedie.
Se ci si poteva attendere che IP – assumendo una tipica posizione maoista – avesse mantenuto il suo carattere avanguardista costruendo al suo fianco un Fronte unito anti-imperialista da esso egemonizzato, la decisione congressuale è stata diversa e per certi versi anche sorprendente. IP ha preferito infatti aprire il Partito in sé a tutto il popolo che si riconosce nelle sei “frecce” kemaliste e a cambiare il proprio nome in Vatan Partisi (Partito Patriottico). Una scelta rischiosa che – accompagnata dall’entrata nel Comitato Centrale di ex-ministri riformisti e conservatori – potrebbe comprometterne il carattere di classe e rivoluzionario, ma nel contempo potrebbe rivelarsi una opportunità per estendere il dibattito sulla transizione a una fase di “Nuova Democrazia” e di economia popolare a blocchi sociali che erano, per educazione e tradizione, lontani dal marxismo.
Il presidente Perinçek ha dichiarato ai delegati, che lo hanno seguito entusiasti votando all’unanimità il cambiamento del nome: “non dobbiamo avere paura di crescere: uniremo la patria, noi siamo curdi e turchi e assieme formiamo il popolo della Repubblica” ha tuonato, ribadendo il carattere “popolare e socialista” del suo Partito che nello statuto ribadisce di essere “avanguardia della classe operaia, dei contadini, degli artigiani” ma anche – aggiunge – “dei piccoli commercianti e imprenditori nazionali”, ossia coloro che non appartengono alla grande borghesia compradora legata al capitale atlantico.
Contaminazione culturale e controllo egemonico
Finora hanno raggiunto il “nuovo” partito alcuni ex-deputati di spicco della socialdemocrazia come Tayfun Içli, ma anche personaggi più discussi come colui che nel 1991 fu ministro della difesa Barlas Doğu, politicamente ritenuto un conservatore. Un altro nome dal passato ambiguo è Yasar Okuyan: già ministro della sicurezza sociale fra il 1999 e il 2002, l’ultima sigla per la quale ha militato è stato il Partito della Risurrezione Popolare (HYP), una piccola realtà anti-imperialista che nei propri statuti indicava quale obiettivo la creazione di una “economia sociale di mercato” che prevedeva tuttavia la “pianificazione economica nei settori strategici”. Semih Eryildiz arriva invece dal Partito Democratico della Sinistra (DSP) ed è noto per la sua collaborazione con il “Global Eco-Village Network”. Non mancano anche gli alti ufficiali pensionati, i cosiddetti “soldati di Mustafa Kemal” che sono stati allontanati dai posti di comando da Erdogan, come l’ex-comandante della gendarmeria Hasan Atilla Ugur, uno dei protagonisti della lotta contro l’organizzazione separatista curda PKK e l’ex-generale Ismail Hakki Pekin, in passato attivo nei servizi di controspionaggio dell’esercito turco.
Non mancano però – e sono la maggioranza – i nomi della sinistra rivoluzionaria del Paese che da tempo peraltro hanno scelto di militare in IP. Fra gli altri Ali Mercan, dirigente della Gioventù Rivoluzionaria (Dev-Genç) durante il ’68. Nel 1972 fu fra i fondatori del Partito Comunista di Turchia Marxista-Leninista (TKP/ML), un partito anti-revisionista che abbandonò quando questo decise (sciaguratamente) la via della “guerra popolare”. Abbandonata quell’esperienza, negli anni ’80 iniziò a rappresentare i maoisti turchi di Perinçek in Germania. Fra coloro che subirono la repressione della giunta militare negli anni ’80 troviamo anche il giornalista Arslan Kılıç, che a suo tempo fu addirittura uno dei massimi leader militari dell’Esercito di Liberazione degli Operai e dei Contadini (TIKKO), il braccio armato del TKP/ML, che proprio sul kemalismo entrò però in conflitto con il comandante guerrigliero Ibrahim Kaypakkaya. Assieme a questi nomi troviamo un altro dirigente storico della sinistra turca, Ferit Ilsever, leader del movimento studentesco di Istanbul fra il 1965 e il 1969, nel 1988 fu eletto presidente del disciolto Partito Socialista. Fra i numerosi vice-presidenti del Partito troviamo non solo il politologo Yunus Soner, dal 2013 al 2015 responsabile esteri del Partito, e con un passato di giornalista e sindacalista, ma anche Mehmet Bedri Gültekin, autore nel 1980 del libro “Il socialimperialismo sovietico e la questione curda” e di un saggio contro il “comunismo nazionale” di Mirsaid Sultan-Galiev. Accanto ad alcuni operai che sono balzati all’onore della cronaca per alcune lotte sociali recenti, dal movimento sindacale arriva Yıldırım Koç, che dal 2003 al 2013 ha svolto consulenze per l’ufficio presidenziale di Türk-Is, la confederazione sindacale più grande del paese e che ha avuto una breve esperienza in ÖDP, una formazione che oggi aderisce al Partito della Sinistra Europea. Sempre dal movimento operaio troviamo Sefa Koçoglu, ex-presidente del Sindacato dell’Energia legato al KESK, la confederazione sindacale della funzione pubblica. Senza scordare Ceyhan Mumcu che ha lavorato ai piani alti dell’Internazionale dei sindacati dei servizi pubblici e Bilal Simsir, ex-dirigente del Kultür-Sanat-Sen, il sindacato dei lavoratori della cultura e dell’arte.
Quale esito si può prevedere?
Si riuscirà a rendere Vatan Partisi un soggetto politico di massa che sappia superare lo sbarramento del 10% per entrare in parlamento? Nulla è sicuro nelle dinamiche elettorali turche, ma è evidente dai numeri e dal dibattito scatenato nel Paese che questa volta abbiamo a che fare con un progetto che perlomeno può ambire a contare qualcosa, superando la fase dei risultati a “prefisso telefonico”. L’alternativa poteva essere quella di riunirsi con i partiti comunisti minori nel neonato Movimento di Giugno, un’alleanza della sinistra radicale, ma IP assumendo il nuovo nome ha scelto una via più impervia ma anche più coraggiosa poiché esce da ogni potenziale autoreferenzialità e si sforza di parlare ad altri ceti sociali e ad altre forze repubblicane, nell’ottica di costruire maggioranze in grado di governare il Paese. La domanda vera, però, è un’altra: riuscirà Vatan Partisi a mantenere la prospettiva socialista come elemento centrale o soccomberà a un discorso patriottico anti-imperialista incapace però di sbocchi rivoluzionari? E’ un compito difficile in cui non mancano i rischi e, tuttavia, riuscire a unire in una sola forza politica tutti gli anti-imperialisti kemalisti, i laicisti e le istanze del movimento operaio potrebbe effettivamente consistere in uno dei progetti più coraggiosi e appassionanti della sinistra turca degli ultimi decenni. Così come senza dubbio è interessante il programma di governo che Vatan Partisi ha ereditato da IP: in esso leggiamo come il suo scopo sia quello di “completare la Rivoluzione Kemalista, di ristrutturare lo stato nazionale sulla base dell’indipendenza” e di creare “una società prospera, moderna e libera”, attuando una politica estera “di cooperazione pacifica”. La presa del potere coinciderà con un progetto per rafforzare “la cooperazione e la solidarietà con i paesi dell’Eurasia, specialmente la Russia, la Cina Popolare e l’India” aderendo all’Organizzazione di Shangai, così da aprire nuove relazioni win-win ma anche per normalizzare i contatti con l’UE (di cui, però, la Turchia non sarà mai membro). A livello economico il programma di transizione prevede “una politica di economista mista con un settore privato dinamico ma diretto dal settore pubblico” e concretamente attraverso dei piani quinquennali organizzati da un Istituto Statale di Pianificazione Economica. Rifiutando una futura collaborazione con il Fondo Monetario Internazionale il programma prevede di ritrattare il pagamento dei debiti dello Stato con un ritmo che non danneggi il potenziale di sviluppo dell’economia nazionale. Il settore bancario sarà nazionalizzato, le transazioni in valuta straniera saranno soggetti ad autorizzazione così come la circolazione di capitale estero. Gli uffici di cambio saranno chiusi: in pratica si va verso una inconvertibilità della lira turca (tipico dei paesi socialisti). E’ previsto un programma di investimento pubblico per estendere l’industrializzazione di tutte le regioni del Paese in cinque anni e a svolgere un ruolo fondamentale saranno le imprese statali che si concentreranno sull’alta tecnologia producendo beni ad alto valore aggiunto e in concorrenza con le aziende estere. A ciò seguirà una riforma agraria con l’obiettivo di cancellare i resti della società semi-feudale soprattutto nelle regioni a maggioranza curda. L’obiettivo della piena occupazione servirà a frenare l’emigrazione di cittadini turchi all’estero e accanto a un miglioramento delle assicurazioni sociali e alla gratuità di scuola e sanità, i lavoratori avranno una settimana lavorativa di al massimo 40 ore, con almeno un mese di vacanze pagate all’anno. Il lavoro al di sotto dei 15 anni sarà vietato e si prevedono misure per l’emancipazione delle donne. Un programma di transizione interessante e unitario: una proposta che sarà sottoposta al giudizio popolare già alle prossime elezioni politiche di giugno 2015.
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