///

Il Libano travolto dallo scontro tra unipolarismo e multipolarismo

La guerra civile libanese ha insanguinato un tragico quindicennio, dal 1975 al 1990, la ricostruzione è durata oltre un decennio, poi sono arrivati con il nuovo millennio pure i semafori. Può apparire stravagante sottolinearlo, ma in qualche modo hanno rappresentato il ritorno a una normalità che mancava da un quarto di secolo. Quest’anno, già ai primi di luglio, non solo a Beirut, i semafori si sono spenti, muti e inutili in mezzo a strade vuote. La crisi economica ed energetica, il razionamento elettrico e il crollo della moneta nazionale e della produzione hanno messo in ginocchio il paese dei Cedri da mesi.

Il 4 agosto 2020 un’esplosione presso il porto di proporzioni devastanti, probabilmente innescata e non occasionale, ha portato alla distruzione di interi quartieri, del porto stesso, fondamentale per i commerci e i rifornimenti, di un numero considerevole di infrastrutture. Alcuni giovani, aizzati dalla visita del presidente francese Emmanuel Macron, hanno ottenuto le dimissioni del governo e l’indizione di nuove elezioni.

Un sistema elettorale per evitare la guerra civile

In Libano si vota per terzi, ovvero si tiene buono il censimento di un secolo fa, che attribuisce a tutte le comunità cristiane, principalmente maroniti, un 40% della popolazione e quindi dei seggi e il 30% ciascuna alle altre due comunità, quella sciita e quella sunnita. È una rappresentazione del tutto non corrispondente alla realtà attuale.

Tutti sanno, ma nessuno lo scrive, neppure su Wikipedia, che gli sciiti sono la maggioranza assoluta, che i sunniti non raggiungono un terzo della popolazione, che i cristiani sono oggi a malapena un quinto dei libanesi. Gli sciiti, che sarebbero i primi a beneficiare di un cambiamento del sistema elettorale volto a riconoscere una rappresentanza proporzionale della popolazione, non lo chiedono, perché sanno che una loro evidente vittoria con una maggioranza assoluta produrrebbe il ritorno alla guerra civile.

L’imperialismo francese e americano fomenta la crisi libanese

Francia, Stati Uniti e Arabia Saudita, che hanno versato per un ventennio sovvenzioni economiche miliardarie ai loro alleati libanesi, maroniti e sunniti, dopo la vittoria di Bashar Al Assad in Siria contro i terroristi, hanno chiuso i rubinetti del credito, non ritenendo più il Libano strategico e auspicando una crisi politica e sociale che ponesse in discussione il governo di Hezbollah, la forza sciita che non solo è il primo partito libanese, ma è anche l’organizzatore di quelle milizie che hanno dato un contributo determinante al legittimo governo siriano per stroncare l’ISIS.

Nel dicembre 2019 l’Occidente ha fomentato le proteste di piazza, ma la rivoluzione colorata era tanto tenue e pallida da esaurirsi ben prima dell’arrivo del Covid, accompagnato dal razionamento elettrico e dalla disoccupazione che da Beirut centro fino al nord del paese ha messo in ginocchio intere comunità, mentre la maggioranza dei cittadini, sciita e votante Hezbollah, insediata da Beirut sud al confine con Israele, è riuscita invece, con una rete di solidarietà sperimentata in decenni, a sopperire alla crisi economica.

Ostacolare Hezbollah e l’Iran significa impedire che il Libano guardi alla Cina

Ora, difficile dire se per volontà o per caso, dopo il 4 agosto l’Occidente ha capito che lo snodo libanese è una delle pedine fondamentali nella costruzione di un mondo multipolare e di pace promosso da Cina e Russia e che un Libano sovrano e indipendente, legato a queste potenze attraverso l’intermediazione iraniana, non è conveniente agli interessi della NATO.

È scattata così l’azione mediatica dopo che per mesi, forse per anni, la stampa e le televisioni europee non si erano più occupate del Libano. In un campionario di voci più parziali della minoranza che rappresentano, alcune ragazze che parlano francese e inglese, che hanno studiato in scuole occidentali e che dell’Occidente condividono usi, costumi e mode, di fronte ai microfoni hanno affermato gemendo che il Libano è un terribile “regime” e non vedono l’ora di ricevere i fondi-capestro (perché da restituire) della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e dell’Unione Europa, ovviamente per queste ragazze assurte loro malgrado a rappresentanti di tutti i libanesi, gli aiuti iraniani diventano “ingerenza”, “interferenza”, “intromissione”.

I prossimi mesi, a prescindere dalle elezioni che presenteranno il solito quadro compromissorio dettato dal sistema elettorale, diranno quanto la NATO intenda riprendere il dispiegamento della sua azione in Medioriente e quindi quanto intenda ostacolare i legittimi rappresentanti del popolo libanese nelle loro scelte politiche.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.