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Siria, il drammatico ritorno della guerra

Dunque di nuovo la guerra è in Siria. Pare strano, ma il fuoco mediatico europeo, tutto unanime da destra a sinistra, manca questo dettaglio, non irrilevante.
Riepilogare i fatti è quasi impresa titanica, soprattutto in poche righe.
È falso che le forze armate curdo-siriane e gli statunitensi abbiano sconfitto l’ISIS. Piuttosto sono state sconfitte dall’esercito siriano del governo legittimo di Assad, supportato dalle truppe russe dal 2015 e dalle brigate internazionali sciite dal 2013, composte principalmente da libanesi e iraniani. Mentre in Iraq è l’esercito irakeno a liberare Mosul, l’altra capitale dell’ISIS, Raqqa, sita in territorio siriano è “liberata – occupata”, dai curdi siriani e dagli statunitensi per controllarne il sistema idrico dell’Eufrate e quello petrolifero, impedendo la riunificazione della martoriata Siria.
È falso che le popolazioni curde della regione, in particolare quella della zona turca di Diyarbakır che ho incontrato nel gennaio 2017, siano in maggioranza favorevoli ai gruppi armati che supportati dagli Stati Uniti promuovono il separatismo etnico.
È falso che ci sia unanimità tra i curdi rispetto alle posizioni dei curdo-siriani, il capo dei curdi irakeni Barzani si è espresso a favore della Turchia in merito all’attuale operazione di guerra.
Nel settembre 2014 ho scritto un libro “Giona, Mosul e la Palestina, la crisi irreversibile di Siria, Iraq e Medioriente”, che viene editato nel gennaio 2015 in cui riassumo i primi tre anni di guerra siriana.
In quel libro ricordo che l’ISIS compare quell’estate, mentre è in corso il mondiale di calcio in Brasile e opera immediatamente con enormi fondi provenienti dalla amministrazione Obama e dalle petromonarchie del Golfo, con le quali però entra in attrito, decidendo di vendere il petrolio delle zone che controlla non più attraverso i sauditi, ma i turchi. I curdo-siriani sono in quel momento parte della coalizione che da tre anni combatte contro il governo legittimo siriano, vengono tuttavia esclusi dagli incontri di coordinamento tra i vari gruppi armati promossi dalle petromonarchie perché si rifiutano di compiere una scelta confessionale, che è già esplicitamente dichiarata nelle sue venature estremiste e oltranziste, smascherando di fatto tutti coloro che ancora oggi in Europa blaterano di opposizione “laica” al governo di Assad. Tutte queste realtà politiche e militari sono a quel tempo supportate dalla Turchia, che nel corso nel 2015, con l’arrivo dei russi nel conflitto, cambia atteggiamento navigando da allora in una complessa ambiguità, arrivando nel 2016 a rompere con gli Stati Uniti e i gruppi integralisti interni al paese, ovvero la setta di Fetullah Gulen, legata alla signora Clinton e a Obama, ovvero le forze che avevano portato Erdogan al potere e da cui da allora prende le distanze. A questo punto, fallito il golpe contro Erdogan del 15 luglio 2016, i curdi-siriani e gli statunitensi si pongono anch’essi chiaramente contro i gruppi integralistici egemonizzati dal’ISIS e ingaggiano con successo la battaglia per giungere prima dell’esercito siriano a Raqqa e occuparla, l’Eufrate diventa il confine tra la Siria curdo – statunitense e quella del legittimo governo di Damasco.
Con il dicembre 2016 e la liberazione di Aleppo si arriva a una sostanziale tregua armata, che vede lo stato siriano avere una nuova frontiera a ovest dell’Eufrate da Aleppo a Baghouz, l’esercito turco occupare la regione di Afrin, gli integralisti islamici e tutto il variegato mondo della cosiddetta “opposizione democratica siriana” asserragliarsi a Idlib, infine i curdo-siriani e gli statunitensi in quella vasta porzione di territorio siriano che si trova a est dell’Eufrate.
Nel frattempo Erdogan, con la spregiudicatezza e l’inaffidabilità che lo portano a cambiare sempre alleanze, prima dialoga con Russia e Cina, compiendo il dirompente gesto di acquistare dai russi il sistema anti-missilistico, un’operazione contro la NATO più forte di tante manifestazioni delle sinistre europee contro l’Alleanza Atlantica, poi, non avendo mai reciso le sue relazioni con parte dei gruppi armati integralisti insediatisi nelle zone sopracitate, con il pretesto legittimo di stroncare alcune basi di addestramento del separatismo etnico i cui militanti poi superano il confine e agiscono in Turchia, si lancia in una operazione denominata “Sorgente di pace”, che non solo mette in discussione gli equilibri attualmente conseguiti dopo otto anni di guerra, ma rischia di riaccendere un conflitto in cui le petromonarchie possono più agevolmente far ripartire i finanziamenti per gli integralisti che agiscono contro lo stato siriano.
Una situazione complessa e difficile, le cui implicazioni sono molto pericolose per l’intera regione, tuttavia nulla a che vedere con le semplificazioni mediatiche in cui la Turchia di Erdogan da soggetto che agisce con torti e ragioni in uno scenario esplosivo viene macchiettisticamente dipinta come la dittatura sanguinaria che opprime il proprio e gli altri popoli.
La sola certezza è che è tornata la guerra in Siria, che in queste ore ognuno dei protagonisti che ha distrutto quel paese è pronto a rimettersi armi in pugno per allargare il suo spazio di influenza, che l’Europa è schierata con una delle parti armate del conflitto e non per la pace e con il governo siriano, il governo che ha riaperto le chiese e tutti gli altri luoghi di culto.
La guerra è tornata in Siria, drammaticamente.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.