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Anche i soldati sionisti soffrono, ma non per questo sono le vittime!

Ne è passato di tempo, da quando in piena guerra fredda il Festival del film di Locarno diffondeva filmografia sovietica: ora si preferisce, evidentemente, quella israeliana. Già qualche anno fa in occasione della 68esima edizione dell’importante evento culturale locarnese un partenariato alquanto discusso con l’Israel Film Fund, emanazione del regime di Tel Aviv, aveva suscitato legittime polemiche. Sul catalogo di quest’anno troviamo invece due pellicole israeliane.

“Hatzlila” (2018) del regista Yona Rozenkier viene presentato nel concorso Cineasti del presente come un film che “non teme di filmare le contraddizioni e i paradossi di un paese sempre sull’orlo dell’abisso”: così scrive Lorenzo Esposito in una recensione forse un po’ troppo ottimista sul giornale del Festival. Esposito certamente dice bene quando afferma che preparare i giovani alla guerra “è un rito estremo, folle”, eppure non siamo altrettanto sicuri come lui che questo film voglia sottolineare come il protagonista, di questo rito, non ne voglia sapere. L’impegno per evitare la partenza al fronte del fratello minore è dovuto solo e soltanto al timore che possa morire. Sentimento assolutamente umano, naturalmente, eppure qui il rischio è la banalizzazione di un conflitto.

Non ci attendiamo certo nulla di critico dalla filmografia sostenuta da un regime che fa della violenza e del razzismo la sua identità (persino costituzionale!), ma le contraddizioni di cui parla la recensione, francamente, ci paiono piuttosto ardue da individuare. Si potrebbe anche spingersi a ipotizzare un sottile tentativo, se non di giustificare, perlomeno di “umanizzare” la politica guerrafondaia dei sionisti; il messaggio che traspare è infatti di una banalità sconcertante: la guerra è brutta! Bella scoperta, ma possiamo dire che lo è anche per i libanesi e i palestinesi massacrati sistematicamente dall’esercito israeliano? Gli arabi (“quelli là”) che per tutta la durata del film di fatto non esistono se non per la volontà di “massacrarli”?

Alla fine la recluta probabilmente non partirà al fronte: la lesione procuratagli, però, è dovuta alla sola paura di cadere in battaglia, non c’è infatti traccia né di pacifismo né di un reale conflitto di coscienza: nessun cenno ad esempio ai “refusnik” che osano rifiutare l’arruolamento nelle forze armate sioniste, accettando anche il carcere. In questo film c’è solo il timore dei coscritti di non tornare a casa: più che legittimo, per carità, ma non troviamo alcuna critica anche solo parziale alla guerra d’aggressione e al colonialismo sionista, anzi si rimarca la convinzione che “tutti devono fare il militare”. Più che alla necessaria critica sociale, qui si gioca esclusivamente sull’aspetto psicologico, svuotandone il senso politico, e arrivando a confondere l’oppresso con l’oppressore. 

Chi ha pagato questo film voleva forse giocare sui sentimenti del pubblico di fronte ai “poveri” soldati israeliani, che pure loro – guarda un po’ – soffrono? Soffrono certamente del continuo stato di mobilitazione, ma è chiedere troppo poter vedere – non dico un qualsivoglia cenno politico, ormai è chiedere troppo – ma anche solo un vago segnale di pietà umana per chi dall’altro lato subisce la devastazione di Tel Aviv? 

Massimiliano Ay

Massimiliano Ay è segretario politico del Partito Comunista (Svizzera). Dal 2008 al 2017 e ancora dal 2021 è consigliere comunale di Bellinzona e dal 2015 è deputato al parlamento della Repubblica e Cantone Ticino.