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“Ora e sempre riprendiamoci la vita”

Non è semplice scrivere una recensione su documentari costruiti attraverso filmati d’archivio dell’epoca, intervallati da commenti e opinioni di alcune personalità di spicco (tra i molti: Bertolucci, Revelli, Cacciari, Fo, Rame, Capanna) che hanno vissuto le vicende narrate dalle immagini e dalle voci dei protagonisti dei filmati. Il pregio maggiore del documentario di Silvano Agosti (2018) sta forse nel rendere accessibile una serie di filmati d’epoca estremamente interessanti; le scelte di montaggio per tematiche e le interviste presentano, tuttavia, alcune criticità che meritano di essere discusse.

Dal 1968 al 1978

Questo il decennio raccontato da Agosti, già autore di diversi documentari e lungometraggi politicamente impegnati che abbracciano una serie di tematiche vicine a questo periodo storico (da Matti da slegare, girato assieme a Marco Bellocchio per sostenere le tesi di Franco Basaglia nel 1975, a documentari come Addio a Berlinguer del 1984, all’inchiesta sull’industria cinematografica La macchina cinema del 1979, assieme a Bellocchio, Petraglia e Rulli). Si tratta dell’ultima decade di quello che venne definito il trentennio glorioso, probabilmente la fase di massima espansione economica della modernità industriale nella vicina penisola. Un periodo di grandissimi cambiamenti sociali, tuttavia meno lineare e omogeneo rispetto a quanto filtra dal montaggio delle immagini. Il sessantotto italiano fu, innanzitutto, un movimento politico che univa operai e studenti – aspetto che emerge chiaramente dalle parole degli intervistati e soprattutto dai filmati delle manifestazioni – a differenza di quanto avvenne alla fine degli anni settanta con il movimento degli autonomi. Si passò, infatti, da una lotta collettiva e politicizzata, dai chiari riferimenti alle rivoluzioni socialiste di quegli anni e alla solidarietà internazionalista (dei quali i cori di piazza che inneggiavano a Ho Chi Min, Mao, Castro e Guevara sono manifestazione esplicita), a una lotta che, staccatasi sempre più dalla politica e dal sindacalismo, scivolò nell’individualismo e/o nell’estremismo, piuttosto che nella ribellione e nella violenza fini a sé stesse, disgregando il movimento politico comunista (o più genericamente anti-capitalista) fino al tracollo degli anni Ottanta.

I grandi assenti…

Se è vero che la scelta del punto di vista sulle vicende è un aspetto del tutto legittimo del lavoro del regista, va rimarcato che durante il documentario, incentrato sulle proteste studentesche e operaie di quegli anni, l’unico soggetto politico ad apparire con una certa frequenza – tolta un’incursione del Movimento Studentesco della statale di Capanna – è Potere Operaio. Il Partito Comunista Italiano non viene, se non erro, praticamente mai menzionato se non attraverso le immagini con le bandiere. Si trattava di un partito, è bene ricordarlo, che in quegli anni sviluppò una rimarchevole egemonia culturale, arrivò sino al 35% dei consensi elettorali, insidiando molto da vicino la Democrazia Cristiana, e, rispetto alle lotte e rivendicazioni di quegli anni, ebbe un esito decisivo per la vittoria delle battaglie sociali e civili. Oltre all’assenza del PCI, e alla rimozione conseguente dell’Unione Donne Italiane (l’associazione femminile comunista), mancano anche una serie di movimenti della cosiddetta sinistra extraparlamentare tra cui Lotta Continua, mentre il fenomeno brigatista rimane sostanzialmente sullo sfondo. Una visione certamente riduttiva, che avvalora la contraddittoria linea della critica del Potere con la P maiuscola, sempre e comunque malvagio e corrotto, non riconoscendo l’eterogeneità e la diversità delle critiche, pur avendo, tuttavia, il pregio di sottolineare il carattere globale delle rivendicazioni che venivano da questi movimenti, tese al benessere delle lavoratrici e dei lavoratori.

… e l’ospite incomodo

Tra le stragi di stato e l’aborto, scortato da stralci del celebre articolo del 14 novembre 1974, appare la figura di Pier Paolo Pasolini. Pubblicato sul Corriere della Sera col titolo «Che cos’è questo golpe?», attraverso una serie di “Io so” Pasolini denunciava la responsabilità delle stragi di stato, del famigerato e (solo apparentemente) fantasmatico “golpe Borghese”, e della complessiva strategia della tensione, come sapere tacito e condiviso del quale chi aveva la possibilità si sincerava di non esibire le prove. Nella seconda parte dello stesso articolo, vale la pena ricordarlo per i tentativi di strappare la sua figura al legame seppur turbolento con il PCI, egli scriveva che «il Partito comunista italiano è un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico». Assassinato il 2 novembre 1975 sul lungomare di Ostia mentre stava redigendo la sua ultima e colossale opera, Petrolio, egli fu figura centrale nel dibatti di quegli anni, per la lucida e provocatoria capacità di mettere in discussione, oltre che il centrodestra e il consumismo, anche una serie di scelte del PCI e di argomentazioni di tanti politici e intellettuali dell’epoca (Ferrara, Bocca, Calvino, Moravia). La scelta di farlo comparire solo rispetto all’assassinio è riduttiva e poco sensata: se il 1968 italiano inizia con gli scontri di Valle Giulia, è proprio Pasolini che con la poesia intitolata “Il PCI ai giovani”, pubblicata sull’Espresso il 16 giugno 1968, metteva fortemente in discussione il carattere della protesta rispetto all’estrazione sociale dei giovani che protestavano e il proletariato che ingrossava le file degli agenti di polizia. Se si parla di aborto, tema nel documentario succesivo alla morte di Pasolini, non si può non considerare la sua posizione: il 19 gennaio 1975 egli pubblicava sul Corriere della Sera l’articolo «Sono contro l’aborto», muovendo critiche importanti alle argomentazioni portate dai referendisti da una prospettiva diversa da quella moralista e cattolica. Insomma: ricordare Pasolini senza queste sue posizioni appare come minimo contraddittorio, così come omettere il ruolo del PCI in quegli anni.

Considerazioni ai margini: fiducia e violenza

La fine del lavoro e le magnifiche sorti e progressive

Una sequenza affascinante, a livello contenutistico distante anni luce da oggi, è il filmato di una trasmissione della RAI sulla fine del lavoro. A differenza di oggi, l’innovazione tecnologica non era vista come qualcosa che avrebbe tolto il lavoro ai lavoratori, causando danni all’economia e al benessere sociale delle persone, ma vi era chi era convinto che con la sostituzione delle macchine ai lavoratori i profitti e il benessere sociale sarebbero incredibilmente aumentati, riducendo il tempo di lavoro di tutti. Se si trattava certamente di una visione eccessivamente positiva, quasi naif, è rimarchevole come in pochi decenni si sia passati da un lato a un’esaltazione della tecnologia e della tecnica come fini a sé stesse, e dall’altro a un luddismo d’antan che, più che alla sobrietà e redistribuzione, mira a un fantomatico e impossibile ritorno alla premodernità e alla comunità (Gemeinschaft) come soggetto politico auspicabile e virtuoso.

La capacità di tollerare la violenza

Un aspetto che colpisce lo spettatore è l’assoluta tranquillità rispetto al tema della violenza con cui i vari intervistati parlano delle manifestazioni e degli scontri con la polizia e i fascisti. Sebbene ricordino con il giusto cordoglio le drammatiche stragi, nessuno parla di una società insicura, pericolosa, di città dove si respira un clima di paura diffusa e sorda. Vi era sicuramente maggiore violenza all’epoca rispetto a oggi, un numero maggiore di reati, morti e feriti. Eppure la massima percezione di insicurezza emerge oggi poderosa di fronte a una società dove ad essere scomparsa è la capacità di tollerare la violenza. Non potendomi dilungare, né volendomi lanciare in improbabili voli pindarici, mi limito a sottolineare due aspetti. Primo: l’insicurezza sociale sul lavoro, rispetto a quegli anni, è un fenomeno diventato pervasivo e diffuso nella stragrande maggioranza delle occupazioni, sempre più a breve termine, flessibili e sottopagate. Secondo, e forse più importante, non si è più in grado di reperire una cornice di pensiero entro la quale collocare i fenomeni di violenza, trovandovi un senso rispetto alle motivazioni e agli obiettivi per la stessa. Oggi la violenza, fuori dal quadro politico, appare insensata, casuale, e brutale, generando una sensazione di spaesamento e insicurezza. Sembra non essere più possibile ricostruire né perché di certe azioni, né trovare contromisure adeguate, rispondendo in automatico con l’esaltazione di una controproducente deriva securitaria.

Simone Romeo

Simone Romeo, classe 1993, è pedagogista e dottorando di ricerca in "Educazione nella società contemporanea" presso l'Università di Milano-Bicocca. Già consigliere comunale a Locarno per il Partito Comunista, collabora da diversi anni con sinistra.ch.