La proposta di riconoscere l’Islam quale religione ufficiale ha suscitato un acceso dibattito nel quale sento il bisogno, in quanto laico, di fare emergere una voce fuori dal coro.
Complice un silenzio di quelle forze politiche che, per loro natura, dovrebbero ergersi in difesa dei valori della laicità, troppo spesso il confronto su tali questioni si riduce a due soli schieramenti. Da una parte troviamo coloro che, piuttosto che argomentare seriamente sulla laicità dello Stato, preferiscono cogliere la palla al balzo per coadiuvare le proprie posizioni identitarie se non addirittura xenofobe: è l’esempio dei nostalgici delle ‘’nostre radici cristiane’’, come pure dei fautori delle crociate anti-islamiche. D’altra parte vi sono coloro che, quasi timorosi di essere messi nello calderone dei primi, si sforzano di giungere a conclusioni opposte, finendo così per rigettare una lettura critica del problema: è il caso di quanti sono chiamati, non senza troppa fantasia, ‘’buonisti’’. E’ contro questi schieramenti che si batte, appunto, una visione laica e razionale della società: essa unisce chi reputa la neutralità confessionale dello Stato come un pilastro costituzionale, che non può essere preservato né con facili strumentalizzioni, né con sterili banalizzazioni.
Per cominciare, non ci si può esimere dal constatare una mancanza di chiarezza della proposta, che stando alla promotrice Irène Kälin, futura Consigliera nazionale, consiste nel ‘’riconoscere l’Islam quale religione ufficiale in Svizzera’’. Bisogna infatti precisare che la Confederazione non riconosce ufficialmente alcuna comunità religiosa, proprio perché tale prerogativa è accordata soprattutto ai Cantoni. In questo senso, mal si comprende la pretesa di riconoscere sul piano nazionale la sola religione islamica: ciò non costituirebbe soltanto un passo indietro rispetto alla natura laica dello Stato federale, ma pure un’ingiustificata disparità di trattamento verso gli altri credo. Detto questo, vale comunque la pena chinarsi sul discorso di fondo della proposta, il quale può fornire degli spunti per una sua declinazione a livello cantonale.
La nostra Costituzione sancisce la neutralità confessionale dello Stato e, nel contempo, il fatto che nessuna comunità religiosa in quanto tale è privilegiata rispetto alle altre. Questo, che piaccia o meno, è il quadro giuridico nel quale ci muoviamo; questo, anche per chi non sembra ancora averlo colto, è uno dei lasciti dei moti liberali che adesso, a distanza di oltre cento anni, è finalmente il momento d’interiorizzare. Non vi è pertanto alcun motivo per cui le Chiese debbano avere il monopolio del riconoscimento statale, ammesso e non concesso che questo rappresenti un mezzo adeguato per garantire una separazione fra Stato e religione. A tale proposito, non convince l’idea secondo cui, a giustificare il monopolio delle Chiese, vi sarebbero svariati riferimenti tra i quali, ad esempio, il prembolo costituzionale e la bandiera rossocrociata; ai suoi fautori, la Costituzione andrebbe chiesto di leggerla per intero: scopriranno che, a determinare l’orientamento religioso del Paese, non sono i suoi simboli bensì le sue leggi, che ne prevedono appunto la neutralità confessionale. Dal momento in cui le istituzioni si riconoscono laiche, i diversi credo devono assumere quindi lo stesso peso agli occhi dello Stato. Di conseguenza, una chiusura aprioristica nei confronti di una determinata comunità non può che cozzare col dovere di equidistanza che va osservato con i diversi attori religiosi. Oltretutto, non va scordato che il riconoscimento delle comunità religiose viene sempre esaminato dalle autorità, proprio per assicurarsi che le prime dispongano di un’organizzazione democratica e siano rispettose dello Stato di diritto.
Per smarcarsi dalle due tendenze, entrambe nefaste, di strumentalizzazione e banalizzazione del problema religioso, occorre perciò salvaguardare quel pilastro costituzionale, laico e umanista, che è la neutralità confessionale dello Stato. Anche in questo frangente, possiamo insomma ritenere la pretesa di una sua equidistanza rispetto alle comunità religiose come un passo prezioso, auspicabile ma non sufficiente, verso una separazione effettiva tra Stato e Chiese.