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Sul “terrorismo”. Qualche provvisoria riflessione a partire dagli ultimi avvenimenti

1. “Terrorismo: ideologia e pratica del terrore, esercitata di danni di obiettivi individuali o collettivi, militari o civili, per ottenere un risultato politico, a breve medio o lungo termine, o anche privo di finalità al di là del terrore, che diventa tale quando specificamente colpisce l’ambito dei civili: persone e/o infrastrutture”. Una definizione minimale, questa che si legge in un dizionario politico, che in fondo non dice molto, ma, unificando fenomeni storicamente diversi e spesso lontani nel tempo e nello spazio, aiuta a delimitare il campo, anche se non affronta un dato che sempre di più, negli ultimi anni, e negli ultimissimi tempi, emerge con forza, ossia l’uso ideologico da entrambe le parti, tanto di coloro che rappresentano gli offensori, quanto di coloro che rappresentano gli offesi. E nella sua indeterminatezza il concetto di terrorismo appare perfettamente consono allo scopo, su entrambi i fronti.

2. Il terrorismo, in realtà, viene di lontano, storicamente, ed è stato usato da singoli e da movimenti, sia contro uomini simbolo (i regnanti, i governanti, i capi politici o religiosi) di un potere da combattere, con ogni mezzo, sia contro i luoghi fisici, che spesso erano luoghi a loro volta simbolici, o semplicemente davano la possibilità di fare un grande danno, in quanto contenevano una grande massa di persone, ma anche di beni, di opere d’arte e prodotti di ingegno: un albergo, una stazione, un aereo, un grattacielo. Se il terrorista vince, e diventa magari capo di governo o di Stato, il suo passato terroristico viene cancellato ipso facto (basti citare Menachem Begin, organizzatore dell’attentato all’hotel King Victor di Gerusalemme, che produsse 91 morti e innumerevoli feriti, nel 1946; non solo divenne capo del governo di Israele, ma addirittura fu insignito del Nobel per la Pace). In tal senso i terroristi politici sono coloro che non vincono la loro guerra, gli sconfitti.  Ma alla luce della definizione d’esordio, come non chiamare terroristi la totalità dei governanti di Israele, che bombardano in modo indiscriminato quell’alveare umano che è “la striscia di Gaza”? come non etichettare in tal modo l’Amministrazione USA che in Vietnam, negli anni Sessanta-Settanta del Novecento, in Afghanistan, in Iraq, in Siria, in Libia semina morte, distruzione e, appunto, terrore? Come non affibbiare questa infamante etichetta anche a numerosi governi europei, ovvero alle autorità della stessa Unione, che condividono sempre decisioni di Washington e anche, quasi sempre, di Tel Aviv?

3. Si tratta di fenomeni di terrorismo di massa, pianificato, in grado di produrre centinaia, migliaia, decine e centinaia di migliaia di morti in modo scientifico, industriale: l’esempio massimo sono Auschwitz e Hiroshima, che, con le loro macerie fisiche e morali, rappresentano il culmine della “modernità” industriale, in cui la scienza e la tecnica sono state tranquillamente impiegate, con qualche scarto di coscienza ex post, per annichilare popoli e città.

4. Dunque, oggi il terrorismo diventa parte integrante del discorso propagandistico di quello che un tempo si sarebbe chiamato “il sistema”, ma che oggi si esiterebbe a definire tale, nel timore di esser etichettati come rétro, come antichi, come vetero-qualcosa. Eppure non v’è dubbio che di sistema si tratti: che producendo e distribuendo con sovrana impudenza dolore e ingiustizia, genera risentimento e rabbia; qualche anno fa Marc Ferro pubblicò un libro sul risentimento nella storia, sottolineando l’importanza misconosciuta o sottovalutata di questo elemento. Ritengo utile ricorrere a questa categoria, apparentemente impolitica, del risentimento, per aiutarci a capire ciò che accade intorno a noi, in una serie di cerchi concentrici sempre più stretti, sempre più ravvicinati, nei quali diventa sempre più difficile distinguere (potenziali) bersagli e (potenziali) aggressori, in cui ciascuno di noi può rivestire a turno i panni della vittima o del carnefice.

5. Al di là del risentimento, che non è solo un fatto che concerne gli individui singoli, ma può investire intere comunità, interi popoli, non c’è dubbio che sono le nostre guerre, è la nostra ostentata, serena iniquità, fondata su una bipartizione del mondo sempre più netta tra un pugno di ricchi, che sono ormai ultraricchi, indecentemente ricchi, e una massa sterminata di poveri, che sono ormai ridotti all’indigenza estrema, non è forse qui la fonte prima del “terrorismo”? Dopo le Torri Gemelle, abbiamo dichiarato “guerra a oltranza”, “guerra senza quartiere”, “guerra globale”, al “Terrore”, trasformando un concetto in una entità che talora abbiamo collocato anche geograficamente: in Afghanistan, in Iraq, in Siria, in Libia… Ma i dati in nostro possesso ci dicono che sono gli occidentali, con le loro classi politiche, militari, finanziarie, ad essere sovente i genitori, o progenitori, i protettori, o finanziatori, del “Terrore”, dai Taliban ad Al Qaida, fino all’Isis. Creiamo, dunque, non solo le cause del terrorismo, ma finiamo per fomentarlo, organizzarlo, foraggiarlo, qua e là, a macchia di leopardo, e, astutamente (ossia, credendo di agire astutamente), individuiamo negli esecutori gli architetti, nei disgraziati che si prestano a gettare la bomba o guidare un furgone, le “menti” che vogliono distruggere “la nostra civiltà”, il “nostro modello di vita”, e via seguitando in una sequela di banalità e scempiaggini sconcertante.

6. Tale attitudine politica, mentre alimenta odio per lo “straniero”, specie se ha la pelle scura, se è di religione islamica, se chiede asilo, se ha la malasorte di sopravvivere alla traversata del mar Mediterraneo, che non è più “mare nostrum”.  Il migrante diventa il nemico: di conseguenza, anche l’hospes si trasforma in hostis, anche quando di migranti facciamo incetta come esercito lavorativo di riserva, anche quando i migranti ci danno il loro denaro, guadagnato con forme di sfruttamento bestiale, per far sopravvivere il sistema pensionistico di cui forse non godranno, anche quando i loro figli permettono alle nostre scuole di sopravvivere. Ma non solo non li vogliamo rendere “cittadini”: no, li additiamo a responsabili di tutto: ci rubano lavoro, assistenza, ricchezza, e ci toglie la tranquillità delle nostre case e la sicurezza delle nostre cose. E quando vogliamo ostentare apertura, al profugo, al derelitto, al miracolato dalla tratta schiavile, sopravvissuto ai viaggi della disperazione, diciamo: “torna al tuo Paese, ti aiuteremo là”. Dimenticando  che sono le nostre bombe ad allontanarlo dalla sua casa, che, quasi sempre, è un mucchio di cenere, cenere di cose e di persone: siamo noi, noi occidentali, noi ricchi, che agli occhi dei veri poveri tali appariamo, sempre e comunque, ad aver distrutto la possibilità di vita nei “Paesi coloniali”, dopo averli depredati, dopo aver messo al potere tirannelli comodi ai nostri interessi, li abbiamo spianati col napalm e con le bombe “tagliamargherita”, con la bombe al fosforo o con quelle all’uranio impoverito. Siamo noi che abbiamo non solo preteso, ma teorizzato, il nostro diritto di cambiare le loro civiltà, giudicata “inferiore” o persino “primitiva”, e oggi, paradossalmente, davanti agli orribili eccidi nelle nostre città, commessi da disperati manovrati, li accusiamo di voler modificare la nostra. (In fondo, anche solo in misura minima, un qualche cambiamento non ci riuscirebbe benefico?)

7. E, ora, però, lasciatemi piangere con Barcellona, l’amata città.

 

Fonte: “Il sito di Angelo d’Orsi”

Angelo d'Orsi

Angelo d'Orsi (1947) è professore di Storia del pensiero politico contemporaneo all'Università di Torino. Si occupa da anni, oltre che di questioni di metodo e di storia della storiografia, di storia della cultura e dei gruppi intellettuali. Svolge anche attività di commentatore giornalistico e di organizzatore culturale.