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Reykjavik, l’Islanda e la NATO

L’Islanda non è Reykjavik, ma Reykjavik è l’Islanda. Certo, occorre spiegarsi. Quest’isola fredda, triste, grigia e brulla, stretta tra vulcani, geyser, ghiacciai, lande sabbiose che rappresentano quasi la metà della sua superficie, mentre un quarto è formato da campi di lava rinsecchiti e ricoperti da radi muschi e licheni, ha pochi pascoli e molte acque calde, che riscaldano le serre da cui proviene la frutta e la verdura che ha migliorato un’alimentazione in cui il latte e la crema hanno addolcito per secoli squali, balene e altri pesci variamente conservati. Spazzata dal vento e infastidita, anche d’estate, dalla pioggia, l’isola lambisce a settentrione il Circolo Polare Artico ed è di fatto spopolata, vi vivono infatti solo centomila persone. Poi c’è la capitale, dove ne vivono duecentomila, a giugno alcuni fiori gialli e blu e molti prati colorano di verde la città, mentre la neve si restringe solo sulle vette delle montagne che la circondano. Così che si ha un’isola senza abitanti e una piccola porzione di terra, la città, in cui si raccolgono i due terzi dei cittadini di tutto il paese. Proprio per questo l’Islanda non è Reykjavik, ma Reykjavik è l’Islanda. Potremmo dire che un piccolo lembo di terra raccoglie i cittadini di una nazione che altrimenti non ne avrebbe. Miti e favole da queste parti si moltiplicano, si affastellano e si contraddicono. Non a caso Verne faceva partire da una spelonca isolana il suo viaggio per sprofondarsi nel centro della terra. Qui è quasi sempre buio, d’estate perché il sole, anche se resta in cielo ventiquattr’ore, si perde dietro le nuvole, d’inverno per la notte, che per sei mesi abbraccia tutto, rischiarata a volte dalle valchirie che lasciano i loro celesti segni, le aurore boreali, così almeno raccontano i miti di queste parti. La fame per secoli ha attanagliato gli abitanti, perché a queste latitudini neppure il mare è generoso e non sempre si possono calare le barche per la pesca, data l’eccessiva violenza delle onde, così che il rubarsi il poco cibo è stata pratica secolare, a cui si è cercato di dare nei racconti popolari l’aura al contempo tragica e allegra dei folletti che rubano tutto, anche dai piatti. Terra disabitata fino alla fine del IX secolo, sono i vichinghi a insediarvisi e a farne un avamposto verso Abya Yala, quelle terre che il monaco Waldsemuller nel 1507 chiamerà Amerika, con la “k” essendo tedesco. Cinque secoli prima infatti Leif Erikson, figlio di Eric il Rosso, dopo che il padre lo ha portato in Groenlandia, decide di spingersi più in là, giungendo nell’attuale Canada. Sarà quello di Leif Erikson un viaggio di conoscenza e di amicizia. Tre secoli dopo, poco dopo la morte di Dante a Ravenna, i fratelli e commercianti veneziani Zeno arriveranno negli stessi luoghi e vi troveranno un insediamento vichingo. Più tardi conquiste, morte e depredazioni saranno praticate dal resto degli europei.

Il liberismo sfrenato qualche anno fa ha portato al collasso il paese, i debiti li stanno ancora pagando, ma dopo la sbornia liberista hanno preferito ripiegare su un più confortevole modello socialdemocratico, una nuova stagione di fame e miseria sarebbe stata intollerabile, meglio relegarla al passato e alle colpe dei folletti. Tuttavia, per quanto possa suscitare simpatia nella strampalata sinistra europea, che apprezza qualsiasi esperimento purché sia poco o per niente marxista, la realtà islandese è meno affascinante di quello che si potrebbe sospettare. Qui dalla seconda guerra mondiale si sono insediati gli statunitensi e le loro basi poi sono diventate quelle della NATO. I nordamericani col tempo hanno anche imposto brutalmente i loro mediocri modelli culturali e portato alcune fabbriche, come quelle di alluminio, che nonostante la retorica dei locali partiti di destra, hanno offerto pochi posti di lavoro e inquinato molto. Gli islandesi sono principalmente pescatori consapevoli della necessità di tutelare l’ambiente naturale e la biodiversità rappresentata dalla loro isola, ma sono anche marinai e sebbene nel 2006 i militari a stelle e strisce abbiano sbaraccato la base NATO, il ruolo dell’Islanda nell’organizzazione che la ha vista tra i fondatori nel 1949, è fondamentali per controllare l’Artico, i cui scioglimenti stanno permettendo ai russi e ai cinesi di prendere questa via per i loro commerci, evitando l’Oceano Indiano e il mar Rosso e puntando ai porti tedeschi, danesi e belgi. Il controllo degli avversari commerciali dell’Occidente non è esattamente una delle prerogative della NATO, ma chi protesta rischia di essere contestato più Halldór Laxness, scrittore e Nobel negli anni ’50, amico dei comunisti e dei sovietici. Se questa è la politica, per le strade della capitale le ragazze bionde, ma anche castane e rosse, i vichinghi scandinavi per popolare l’isola facevano razzia di adolescenti scozzesi e irlandesi, indossano sorridenti le maglie dei calciatori locali, l’identità nazionale è stata riscattata dal pallone, gli islandesi son stati protagonisti del campionato europeo del 2016 e contano di provare ad arrivare ai prossimi mondiali, continuando a giocare un calcio vivace e veloce e raccogliendo la simpatia planetaria ogni volta che mettono in difficoltà le squadre più blasonate. La passione sportiva è più forte del freddo e i giovani calciatori e le giovani calciatrici sembrano divertirsi almeno quanto le balene, le sole a fare capolino tra la pioggia che cade inesorabile e tormentosa dal cielo e gli sbuffi delle onde dell’Oceano, acqua da sopra, acqua da sotto, acqua d’ovunque, questa è l’Islanda.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.