A Sebta, in arabo, in spagnolo Ceuta, via terra si arriva da Tangeri, l’antica Tingis berbera, poi fenicia e quindi capitale della Mauritania romana. Tangeri, adagiata sulla prima costa dell’Atlantico, ha bianche case che dalla Medina, superate le antiche porte, invadono le vie dei quartieri nuovi con una popolazione che supera le seicentomila persone ed è destinata ad aumentare, vista l’impetuosa natalità dei marocchini. Nella Medina riposa Ibn Battuta storico e geografo qui nato, che, dopo trent’anni di viaggi e molti libri scritti, ha affermato che chi viaggia molto impara e conosce di più di chi vive tanto. L’alauita Mulay Ismail, contemporaneo del Re Sole, con cui trattava da pari a pari, la riporta alla fine del Seicento all’interno del sultanato marocchino, ma due secoli dopo il devastante colonialismo europeo se ne impadronisce, facendone per un secolo un porto franco e una città internazionale, qui nel 1947, dieci anni prima di ricongiungersi alla madrepatria, il futuro sovrano Mohamed V pronuncerà un celebre discorso reclamante l’indipendenza del Marocco, che giungerà nel 1956. Giuseppe Garibaldi, dopo aver difeso prima la Repubblica Romana e poi la Serenissima, salpando da Venezia, affranto anche per la morte di Anita a Comacchio, proprio a Tangeri troverà ospitalità, prima di partire qualche mese dopo alla volta di Cuba, dove lavorerà come assistente del rumorista del teatro dell’Avana, Antonio Meucci, più tardi inventore del telefono, che l’eroe dei due mondi seguirà per qualche mese a New York, quando questi aprirà una fabbrica di candele.
Il taxi collettivo si ferma alla frontiera di Sebta – Ceuta prospiciente il mare. Sebbene anche qui non manchi il doppio filo spinato, il grosso della muraglia, alta sei metri, di ferro e acciaio che prova per otto chilometri ad arginare i cittadini subsahariani in cerca di dignità, lavoro e un rubinetto di acqua corrente, tutte richieste negate a casa loro da dittatori filo-occidentali tenuti al potere dagli europei per provare a continuare a rubare le materie prime energetiche e alimentari di quei paesi, è già alle spalle, lungo i “Sette Fratelli”, i “Septem Fratres”, questo il nome dato dai romani alle colline, sette appunto, che sovrastano la città. Venendo da Tangeri in effetti la costa, largamente occupata dal porto commerciale tangerino, è tutta un susseguirsi di colline e promontori, che prima si inerpicano verso l’immensità attraversata dalle nuvole e spazzata dal vento e poi sprofondano in mare. Proprio alle spalle di Sebta – Ceuta è la vetta più alta, una delle due colonne d’Ercole, ovvero una delle due montagne su cui l’eroe dell’antichità, così narra il mito, dopo aver ucciso il gigante Anteo e averne posseduto la moglie, aveva posto una delle colonne oltre le quali finivano il mondo e la conoscenza, o meglio finiva la conoscenza del mondo per i greci e i latini. Oggi è il monte di Mosè, in arabo Jebal Musa, l’altra colonna è Jebal al Tariq, ovvero Gibilterra, visibile subito oltre il mare, in omaggio a Tariq ibn Zyad, conquistatore agli albori dell’VIII secolo della Spagna visigota, sostituitasi sotto la guida di Ataulfo e Galla Placidia a quella dei Vandali. Con Tariq ibn Zyad la Spagna prende il nome di Al – Andalus, o meglio “bilād al-landahlausiya”, il “paese dei feudi gotici”, semplificato appunto in Al – Andalus, nome con cui ancor oggi tutti gli arabi indicano l’intera penisola, mentre per gli occidentali riguarda solo l’attuale Andalusia, ultima propaggine del regno islamico prima della sua caduta nel 1492. Divenuta spagnola, Gibilterra si sente comunque insicura e implora Carlo V, ben più occupato dai nobili tedeschi passati con Lutero e dall’evolversi delle conquiste nelle Americhe, a fortificarne le mura. Carlo V alla fine acconsente ai pressanti desideri e manda l’architetto italiano Giobatta Calvi nel 1552, ma un secolo e mezzo dopo i poderosi bastioni non reggono l’urto dei cannoni degli inglesi e degli olandesi, i quali nella calda estate del 1704 si impadroniscono della città, nel corso della guerra di Successione spagnola, quella che porterà i Borbone sul trono di Spagna dopo la scomparsa degli Asburgo, che proprio con Carlo V avevano occupato il trono dei castigliano-aragonesi. Il trattato di Utrecht del 1713 sancirà il passaggio del monte Tariq ai britannici. Oggi, tre secoli dopo, i trentamila abitanti stanno valutando la possibilità di tornare con gli spagnoli per non perdere i vantaggi dell’appartenenza all’Unione Europea, respinta dalla Brexit. La bandiera gibraltina d’altronde è ancora quella concessa da Isabella di Castiglia nel 1502, bianca e rossa con il castello e la chiave, il vessillo britannico non vi compare. La prossimità alla Spagna, Algeciras è tutt’attorno a Gibilterra, separata solo dalla pista dell’aeroporto e dagli uffici della frontiera, prevarrà allora sulla lontana e recente madrepatria, e forse per arrivarvi in aereo non sarà più necessario fare scalo a Londra, allungando di non poco il periplo celeste.
La bandiera invece in quattro quarti bicolori bianchi e neri, utilizzata prima dai domenicani, poi dalla corona portoghese come bandiera nazionale, insieme a quella bianca e azzurra, che poi prevarrà e resterà nei secoli fino agli albori del Novecento, passa alla città di Lisbona, che ancora la utilizza ed è quella di Sebta – Ceuta, che come simbolo cittadino ha quello del Portogallo. È infatti il sovrano portoghese Giovanni I a strapparla nel 1415 ai musulmani, che per secoli, con alternanza tra andalusi, berberi e marocchini, l’hanno controllata, facendone una potenza marinara al pari di Genova e Venezia, anche se i libri di storia europei non lo ricordano. Abu Yusuf Yaqub al-Mansur alla fine del XII secolo ne costruisce l’arsenale e i cantieri navali, che, insieme alle tante moschee, fanno di Sebta il più importante porto del Mediterraneo islamico. Nel 1580 tuttavia gli spagnoli incorporano il Portogallo rimasto senza monarca, l’unione termina nel 1640 con l’avvento dei Braganza a Lisbona, ma la città di Sebta – Ceuta resta sotto la corona di Madrid. La città, come detto, è attorniata dal filo spinato, ma non lo si vede, perso oltre le colline che appartengono direttamente all’esercito, come metà del territorio dell’enclave. I militari sono molti e in larga parte prestano servizio in quella Legione che ha tristemente contribuito a soffocare la Repubblica Spagnola nella guerra civile dal 1936 al 1939, partendo proprio da Ceuta. Oggi rappresentano ancora una buona parte degli abitanti dell’enclave e le loro mogli affollano con manifesta alterigia borghese i negozi del centro che cercano di essere in tutto simili a quelli europei. È una parte di città reazionaria, che vota per il Partido Popular e si è rattristata della rimozione, avvenuta solo pochi anni fa, del monumento cittadino al sanguinario dittatore fascista Francisco Franco. Tuttavia vi è un’altra città nella stessa città, quella formata da berberi e arabi che hanno passaporto spagnolo e qui vivono, lavorano e hanno molti figli che studiano nelle scuole spagnole della città. Al termine delle lezioni sono queste ragazze e questi ragazzi che si assiepano sui bus. I due partiti arabo – progressisti hanno raccolto alle ultime elezioni un quarto dei voti. Al mezzogiorno del venerdì il richiamo alla preghiera s’irradia dalla moschea principale e squarcia il cielo di marzo che mischia timidi raggi di sole e pesanti gocce di pioggia. L’affermazione dei musulmani locali è un cambiamento lento, ma incessante, che presto darà i suoi frutti, forse, allora, i ragazzi subsahariani che arrivano in quest’Africa che è anche Europa, portando sul volto e nella carne i segni della fame, della violenza, della guerra, privi di tutto e forti solo del loro coraggio, non avranno più bisogno di assieparsi a migliaia intorno alle reti di filo spinato attendendo il favore della notte per provare ad arrampicarvisi e a superarle, per entrare in quella terra che doveva fare della libera circolazione delle persone un valore, invece la nega, garantendola solo alle merci che generano profitti per pochi e miseria per tante e tanti, anche tutti gli altri europei sempre più impoveriti da una globalizzazione consumistico – capitalista, che ha come finalità di arricchire qualche consiglio di amministrazione e di gettare nello sconforto tutte e tutti gli altri. Ogni giorno sono poi numerosi pure i marocchini che attendono, insieme ai turisti, oltre un’ora per avere il timbro che permette di entrare in città, anche loro aspirano a una vita più degna e svolgono nell’enclave rivendicata giustamente dal Marocco quei lavori che i locali rifiutano di svolgere, dalle badanti alle collaboratrici familiari.
Intanto dall’altro lato del mare a Gibilterra, rivendicata con molte ragioni dalla Spagna, sembra di essere a Trst/Trieste, dalle rocce la natura promana verde, profumata e dirompente, il sali e scendi delle colline contribuisce, con le case che guardano il mare, a restituire questa sensazione, corroborata dal forte vento. Sembra di trovarsi sulla sponda giuliana del Mediterraneo ed anche il largo golfo con le tante navi mercantili e alcune militari, così come le ciminiere di Algeciras che ricordano la Ferriera, concorrono a rimandare ogni pensiero alla città mitteleuropea. Sola differenza i macachi silvani, le sole bertucce del continente. A Gibilterra manca quella terra rossa che accomuna dalla penisola iberica al Vicino Oriente lo spazio mediterraneo. La bandiera britannica sul castello sventola poco convinta, forse consapevole di trovarsi fuori luogo, e rispetto a Ceuta qui i militari, questa volta britannici, sono meno numerosi e più discreti. Nell’estrema propaggine de territorio gibraltino e d’Europa sorge l’università cittadina e poco oltre, insieme ai flutti poderosi del mare che si scontrano sulle rocce sotto il faro, una bellissima moschea dipinta di bianco, che si staglia con forza nel panorama, slanciandosi verso il cielo. La frequenta la comunità musulmana locale, anch’essa in crescita, come a Sebta – Ceuta. Alla fine le due colonne d’Ercole hanno in comune il nome arabo e moschee dai minareti svettanti, segni premonitori del futuro tanto dell’Europa, quanto dello spazio euro-mediterraneo.

Davide Rossi
Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.