Industria alimentare, ecologia e capitalismo.

Una delle caratteristiche del sistema economico nel quale viviamo è la mercificazione dei bisogni dell’essere umano. Il cibo, ad esempio, si presenta sotto forma di merce, cioé in perenne balia delle esigenze (e a volte degli sconquassamenti) della circolazione commerciale, spesso caratterizzata da pratiche speculative. Di riflesso ad essere messo in discussione è il diritto ad un’alimentazione di qualità ed economicamente accessibile.

Le speculazioni, non colpiscono solamente determinati settori economici, ma hanno un’ampiezza generale: esse, infatti, agiscono anche sui prodotti alimentari, rialzandone in modo artificiale il prezzo, mistificando così la possibilità di appropriarsene ad una sempre maggiore fetta della popolazione, i cui reali bisogni non trovano una concreta ed ottimale realizzazione in quanto, spesso, le industrie alimentari tendono ad assolutizzare la loro linea commerciale, eliminando realtà locali e dando vita ad un mercato del cibo globalizzato secondo i parametri delle grande economia, capace di annichilire ciò che trova sul proprio terreno.

Che fare, dunque, oltre ad impedire che il sistema finanziario s’insinui nei meccanismi e nell’essere dell’industrie prodruttrici? Un tassello fondamentale nel processo di radicale trasformazione della questione agro-alimentare è la democratizzazione dell’appropriazione della produzione. Ad impedirla è la depredazione delle materie prime da parte delle multinazionali occidentali a scapito dei paesi produttori, i quali subiscono fin dai tempi del colonialismo il dictat del grande capitale. I paesi del sud del mondo sono così saccheggiati delle loro risorse, che vendute a prezzo basso in Occidente ne favoriscono il benessere collettivo a scapito della parte povera del pianeta, da cui partono – e, detto questo, come non comprenderli? – anche fenomeni di “pirateria” o di “terrorismo”.

È necessario dunque sviluppare un modello di consumo e di produzione radicato a livello locale, reale promotore della sovranità alimentare dei singoli nuclei territoriali, slegando altresì l’annosa dipendenza che vede la varie località confrontate al dictat del commercio internazionale, agente responsabile del processo di annientamento della biodiversità.

È inoltre auspicabile che si raggiunga una moderazione del consumismo, realizzabile attraverso una trasformazione culturale e dunque abitudinaria: un orizzonte più che necessario in vista del futuro aumento demografico. La cosiddetta “società sufficiente”, nella quale i cittadini agiscono secondo un’intelligenza ambientale, non deve essere, insomma, una speranza idealistica, ma va al contrario realizzata attraverso un processo politico volto alla trasformazione del reale. S’impone quindi un processo di “decrescita” in termini di produzione e di consumo, necessario per mistificare le ondate di sprechi e di rifiuti che invadono il pianeta.

A tutto ciò va però aggiunto che i citati obiettivi non possono avere una concreta attuazione all’interno dei parametri dell’attuale sistema economico: esso è infatti caratterizzato da difetti strutturali che impediscono alla società una reale trasformazione nel campo della produzione alimentare. Sarebbe in questo senso fondamentale riequilibrare il divario che sussiste fra domanda e offerta, dove la prima si trova ad essere meccanicamente inferiore rispetto alla seconda: un mercato che non può staccarsi da questo legame con la sovrapproduzione deve essere sostituito da un sistema più sostenibile e razionale, che non fagociti le risorse ambientali per poi sprecarle.

Un mercato capitalistico del resto non riesce a distribuire in modo equo le derrate alimentari, creando una situazione in cui un’area é dominata dalla denutrizione ed un’altra, nella quale gli alimenti sono addirittura troppi, generando problemi come l’obesità. Eppure, paradossalmente, persino nelle nazioni benestanti si registra un incremento delle persone che non hanno un sufficiente apporto alimentare e ciò appare ancor più contraddittorio quando i dati mostrano come i due terzi della popolazione mondiale potrebbero vivere con ciò che viene sprecato. La fame non è dunque un problema d’insufficienza di produzione, ma è causata da una strutturazione illogica del capitalismo che fa conseguire un’inefficienza in termini di distribuzione. Un funzionamento illogico, una condizione negativa che é legato all’interesse di pochi.

Oltre a ciò l’industria alimentare rappresenta un importante fattore d’inquinamento: le metodologie di elaborazione delle risorse alimentari sono spesso insostenibili poiché danneggiano il territorio. La pratica della pesca, per esempio, dovendo convivere con le esigenze del mercato (e dunque fornire solamente determinate specie ittiche) è caratterizzata dall’enorme spreco di fauna marina. Infatti, il cosiddetto pesce accessorio, non potendo essere introdotto nel mercato, viene rigettato nel mare ormai deceduto. Si pensi inoltre all’antitesi che sussiste fra un razionale progetto di distribuzione delle risorse su scala locale e l’evidenziarsi di una circolazione commerciale globale che fa riferimento ad esigenze diverse, che s’inquadrano nel primario obiettivo di realizzare un profitto. In questo senso, dato che il panorama dell’industria alimentare non è organicamente unito (Marx parlava di “anarchia della produzione”) vi sono inutili percorsi commerciali delle diverse derrate alimentari, ecologicamente deleteri.

La sfida epocale con cui ci si trova confrontati è il riuscire ad intravvedere un orizzonte sistemico che non abbia i tratti dell’odierno sistema liberale, basato su individualismo e disuguaglianza, ma che veda la propria realizzazione concreta nel socialismo, in base a concetti quali solidarietà ed uguaglianza.

Aris Della Fontana,

Coordinatore Gioventù Comunista (GC)

Lascia un commento