Riprononiamo di seguito un articolo apparso originariamente sul blog de La Redazione Rossa e Nera (http://rrn.tracciabi.li).
Chiasso ore 20.58, il treno proveniente da Como S. Giovanni si ferma, vengono spente alcune luci e salgono le guardie di confine, le quali cominciano a camminare tra i sedili dicendo solo; “passport?” a tutte le persone di colore. Due giovani, si guardano con timore e rispondono che non ce l’hanno. La guardia gli intima dunque “So, out of the train”, e i due vengono fatti scendere e messi contro una parete sul binario. Le guardie cercano ancora, trovano una donna con due bambini, di circa quattro o cinque anni, stessa domanda; “passport?”, lei intimorita dice di non avere documenti, stessa scena, le guardie intimano alla donna di scendere dal treno con i suoi bambini. Un giovane passeggero che guardava la scena si alza indignato; “Ma cosa state facendo?! Sono due bambini!”. La guardia lo osserva di sfuggita e gli borbotta; ”verstehe ich nicht”, il ragazzo allora comincia a parlare in tedesco dichiarando che è una scena oltraggiosa, che non è un paese di diritto quello che respinge una famiglia con dei bimbi piccoli. La guardia replica sbrigativamente che non deve preoccuparsi, che si prenderanno cura loro delle persone bloccate. Il ragazzo abbaia ancora una risposta; “Ah si?! E come? Rispedendoli a Como e lavandosene le mani?”. La guardia scuote una mano come per scacciare una mosca fastidiosa e si allontana con la famiglia confusa e impaurita. L’ultima scena prima che il treno parta; cinque persone scure di pelle contro la parete e almeno quindici guardie di confine di fronte a loro, in semicerchio e braccia incrociate.
Sono settimane ormai che la dogana tra Svizzera e Italia a Chiasso-Brogeda è chiusa ai migranti. Il valico è iper controllato su tutti i fronti; la stazione ferroviaria di Chiasso è presidiata da una trentina di guardie di confine delle quali una parte effettua controlli sistematici a tutti i treni provenienti dall’Italia, il passaggio su strada è presidiato da un minimo di quattro guardie che fermano di sovente macchine targate Italia per un breve controllo, mentre su tutto il perimetro montagnoso sono state installate numerose nuove camere di videosorveglianza (operazione Odescalchi) e sorvolano anche dei droni. Così si presenta in generale la situazione attuale, caccia all’uomo e deportazione. Ma cosa accade veramente? Come viene applicata questa chiusura?
Il principale canale di passaggio è quello ferroviario, dunque, i migranti salgono su treni in partenza da Milano o da Como e tentano il passaggio verso la Svizzera, corridoio che gli permetterebbe di arrivare in Germania o in altri paesi del nord Europa. Le forze di polizia italiane intervengono spesso a Monza fermando già lì i migranti, a Como non tentano neanche più di bloccarli perché dall’altra parte del confine ci sono le guardie svizzere in forza, organizzate in maniera tale da controllare ogni treno che passa per Chiasso prelevando sistematicamente tutte le persone scure di pelle (non sono mancate anche “gaffe” e situazioni imbarazzanti) e in generale persone senza passaporto. Sui due binari più trafficati stazionano in media una quindicina di guardie di confine, sul primo ce ne sono altrettanti, tra uffici e ronde per la stazione. Va notato che la maggior parte delle guardie di confine a Chiasso ora parla tedesco (mandati dalla Svizzera interna per lo svolgimento del compito di chiusura) e si rifiutano di comunicare in altre lingue nascondendosi dietro un indifferente “ich verstehe nicht”. Sul primo binario inoltre è stata installata una grata metallica che conduce a una sala “speciale” adibita apposta per l’occasione, dove i migranti prelevati dai treni vengono identificati e schedati, gli viene posto un braccialetto e sono rispediti in Italia.
La deportazione avviene per mezzo di un’azienda di trasporti privata ticinese, la Mantegazzi SA, la quale preleva i migranti da Chiasso o dai vari centri di “stoccaggio umano” e li riporta a Como. Nelle scorse settimane sono stati danneggiati diversi autobus di questa ditta in segno di protesta contro il lucro sulle spalle della povera gente che l’azienda sta facendo. Una volta deportati a Como, i migranti, stazionano nella zona perché non vogliono arrendersi, per ritentare magari il passaggio verso la Svizzera. La stazione di S. Giovanni del capoluogo comasco è diventata dunque, una sorta di porto di arrivi e di ritorni. Testimoni riferiscono inoltre che, durante i controlli al confine, ai migranti in possesso di vestiti, oggetti di valore ecc…, questi vengono loro sequestrati, prima di essere reclusi nel CIE locale. Questa situazione ha avuto inizio più o meno un mese fa, a metà luglio, quando la Svizzera ha cominciato a non guardare più in faccia a nessuno e rispedire tutti indietro. Si è a conoscenza di migranti deportati in Italia anche quando avevano già raggiunto Bellinzona e Zurigo.
La situazione a Como S. Giovanni è drammatica, servono tutti gli aiuti solidali possibili, cibo, vestiti e tende sono le necessità primarie. Il parco davanti alla stazione è oggi una sorta di campo profughi, con qualche tende e letti improvvisati praticamente ovunque. Oggi ci sono circa cinquecento migranti bloccati a Como, uomini donne e bambini. Nella metà di luglio erano una quarantina, e si accampavano solo in stazione, la sera del 15 luglio, sono arrivate sul piazzale sei auto scure, una delle quali targata Germania, e da una delle vetture sono scesi dei neonazisti armati di spranghe, fermati dai carabinieri a mitra spianato prima di poter sferrare alcun attacco. Rilasciati poco dopo sono tornati e hanno inseguito in auto tre compagni, tuttavia per fortuna nessuno si è fatto male. Tra il 15 e il 17 luglio vengono respinti dalla Svizzera circa centocinquanta migranti, la situazione a Como si complica e ci si sposta nel parco sottostante, in via Tomakachi.
Comincia poi ad arrivare la solidarietà di volontari provenienti dalla regione e dalla Svizzera. Ci si organizza come si può almeno da garantire un pasto al giorno, dei vestiti freschi e delle tende dove dormire. Militanti politici e membri di associazioni solidali collaborano fianco a fianco per sostenere i migranti bloccati. Il numero di respinti aumenta di giorno in giorno, l’assistenza sul posto resta a lungo molto precaria, da una settimana finalmente, staziona sempre un’ambulanza della Croce Rossa Italiana, sono stati installati quattro bagni chimici e è stato allestito un Info-Point dai volontari, luogo di riferimento per la richiesta di informazioni di ogni tipo, tutto tradotto in italiano, inglese e arabo. È stata inoltre aperta una mensa in città che offre la cena, progetto che tuttavia terminerà a fine agosto con l’inizio delle scuole. Anche se qualcosa si può fare, resta sempre troppo poco, la situazione è stagnante, i migranti tentano e ritentano di passare ma vengono sempre respinti, inoltre a quelli che sono già stati identificati spetta un’altra deportazione, verso il sud Italia, a Taranto in Puglia per la precisione. Il principio è lo stesso che in Svizzera, un’azienda privata, italiana questa volta, la Rampinini SA ha ricevuto misteriosamente l’appalto di esportazione dei migranti nei Centri di Identificazione.

Che le teste delle istituzioni svizzere ci stessero per lo meno pensando da molto tempo era chiaro, ma quanto estrema sarebbe stata l’applicazione rimaneva un mistero. Sta di fatto che la chiusura del confine elvetico è stata preparata per bene. Il fattore che probabilmente ha tramutato la teoria in pratica è stata “l’operazione Odescalchi”, esercizio congiunto tra Italia e Svizzera che ha avuto luogo dal 19 al 22 giugno 2016. Quel che si sa di quest’operazione è che lo scopo era lo sviluppo di scambi di prestazioni di sostegno tra i due paesi. Come per esempio prepararsi in caso di catastrofe in zona Chiasso. Quello che poi, in un contesto più ampio, le forze militari e di polizia svizzere e italiane abbiano accordato non è molto chiaro.
Quello a cui stiamo assistendo è a dir poco vergognoso, ma forse la cosa più assurda è che succeda tra il silenzio di tutti, anzi, c’è chi si sente pure soddisfatto e protetto, fregandosene minimamente della sorte delle persone respinte. Un segnale positivo giunge dalla recente manifestazione contro la chiusura delle frontiere, il 19 agosto a Chiasso. Dove una ventina di persone auto organizzate si sono riunite per gridare la protesta contro la deportazione. C’è quindi chi non è contorto dalla paura e crede ancora in un mondo dove le persone siano libere di circolare, con o senza un pezzo di carta identificativo. Se si pensa che chi è contro questa politica parafascista sia solo quella scesa in strada venerdì, si sbaglia di grosso. La lotta alle frontiere non si arresta, si organizza.
