Le statistiche dicono che gli azzurri han percorso per il campo ieri sera dieci chilometri a testa, una ottima media per vincere, Vincente Feola, allenatore del primo Brasile campione del mondo nel 1958, diceva ai suoi campioni: “ricorda che puoi essere il dio del pallone in terra, ma se un ragazzino corre più di te, non toccherai mai palla”, contropiede e catenaccio necessitano di tanti polmoni, correre, correre e ancora correre, solo così il catenaccio è vincente.
Austria e Ungheria, partita dagli echi antichi, è giocata su ritmi blandi, squadre lunghe, poco catenaccio e pochi che corrono, gli austriaci dismessa la maglia bianca, giocano ora in rosso e obbligano gli ungheresi alla seconda maglia bianca. Gli eredi di Mozart si sentono superiori e sottovalutano la compattezza magiara, tra gli austriaci i tre serbi Dragovic, che si fa espellere, Junozovic e Arnautovic non sono nella loro giornata migliore e così affondano insieme al talentuoso Alaba e al forte Okotie, i due nigeriani eredi di Sindelar. Smarriti e attoniti gli austriaci si guardano al fischio finale con la disperazione negli occhi di chi sa di aver tradito tanti tifosi che credono in una nazionale plurale, immagine di una nazione che preferisce un presidente ecologista a uno xenofobo. I magiari esultano a ragione, compreso il nonnetto portiere quarantenne Kiraly, dal 1986 non vincevano una partita in una competizione internazionale e in quel mondiale messicano il 2 a 0 ai canadesi non aveva certo ripagato delle pesanti scoppole rimediate coi sovietici, 6 a 0, e la Francia, 3 a 0, ora, con il passaggio di quasi tutte le terze, l’Ungheria accarezza l’impresa dopo mezzo secolo, l’ultima volta nel 1966 ai mondiali britannici, fermatisi allora davanti ai sovietici ai quarti, dopo aver sconfitto 3 a 1 con grandi giocate di Bene e di Albert il Brasile bicampione consecutivo del mondo nella fase a gironi, una squadra orfana di Pelé, pestato duro dai bulgari nel primo incontro, ma capaci di schierare campioni del calibro di Gilmar, Djalma Santos, Bellini, Altair, Paulo Henrique, Gerson, Lima, Garrincha, Tostao, Alcindo, Jairzinho.
Debutto effervescente in una manifestazione calcistica per l’Islanda, che, eliminati gli olandesi con una doppia sonora vittoria in casa e ad Amsterdam, si presenta come la squadra più disposta a correre e a ragionare collettivamente di tutto l’Europeo e non merita di essere sottovalutata. Vale la pena ricordare che gli islandesi sono solo trecentomila, quanto gli abitanti del Canton Ticino, ma dopo la crisi finanziaria hanno deciso di investire nello sport, nei giovani, nel futuro, che valgono molto di più delle banche. Oggi i campi indoor di calcio, indispensabili per chi sta immerso nelle nevi per tutto l’inverno, sono moltissimi e i ragazzi e le ragazze anche quando fuori è buio per mesi, giocano e si divertono, questa attenzione è all’origine del successo del calcio islandese. Gli artici giocano aperti e i portoghesi sono sempre i soliti, insuperabilmente unici nel coniugare lentezza e qualità. All’iniziale vantaggio lusitano risponde il centrocampista del Basilea Bjarnason, un pareggio meritato e sospinto dal caldissimo tifo islandese, che a colpi di respiri profondi, invocazioni del nome patrio e l’ormai classico “po-po-popopo” ha rappresentato la più felice cornice per questo esordio internazionale.
Cinque giorni, dodici partite, abbiamo visto tutte e 24 le finaliste, il divertimento sarà ancora lungo.
Nel frattempo in Coppa America conosciamo i quatto quarti, la vincente di Stati Uniti – Ecuador incontrerà in semifinale la vincente di Argentina – Venezuela, Perù – Colombia e Messico – Cile l’altra accoppiata di partite, spettacolo assicurato e non è detto che le favorite prevalgano.